venerdì 25 dicembre 2015

BUON NATALE AI TARTASSATI....

Buon Natale a tutti i cittadini italiani tartassati , amareggiati e delusi .
Buon Natale:
agli agricoltori che stanno pagando multe all ' Unione banchieri europei perché non hanno
denunciato 7 metri di terreno , dato che prendono la PAC ,per non aver conteggiato i bordi dei
campi non seminati, buon natale ai cittadini italiani che stanno pagando sanzioni per centinaia di
euro per non aver dichiarato gli aumenti delle rendite catastali dei terreni , per 800 metri di terreno
si stanno pagando multe da 800 euro, perché non erano a conoscenza di tali aumenti e ora
stanno facendo ricorso, buon natale ai cittadini disoccupati grazie a 900 aziende che hanno
pensato, complici i nostri politici, di spostare le loro produzioni dove si possono sfruttare
legalmente uomini e donne senza leggi e diritti e quindi senza pagarli, buon natale alle start-up
italiane che sono fuggite in Svizzera, Irlanda, Australia, Norvegia e la sono aiutate dai governi
locali , agevolati nelle tasse, nelle loro imprese e hanno giurato che non torneranno mai più in Italia
Buon Natale ai dipendenti Fiat Sevel di Atessa e ai loro sindacalisti che stanno lottando perché
nel mese di dicembre si sono svolte quattro giornate di straordinario obbligatorio , sono state
azzerate le ferie promesse ai sindacati e sono stati tagliati i diritti dei dieci minuti di pausa per
coloro che lavorano ai turni!
Buon Natale agli automobilisti italiani che pagano la benzina in modo esagerato quando il prezzo
del petrolio è più basso del valore registrato nel 2008 , ma al distributore, grazie alla componente
fiscale italiana +32% , il pieno costa il 32% in più.
Buon Natale ai familiari delle vittime degli attentati terroristici in tutto il mondo affinché il loro
terribile dolore non sia vano e che la comunità politica si metta insieme per trovare strategie
economiche pacifiche.
Buon Natale a tutti gli agricoltori vittime del dispotismo dell' Unione europea perché pur essendo
ligi nel pagare le loro tasse sono sanzionati perché producono troppo latte, registrano la nascita di
un vitellino due ore dopo la mezzanotte dello stesso giorno,non hanno nella cabina del trattore,
mentre lavorano nel campo, il registro viaggi relativo alle botti -spargimento liquami.
Buon Natale quindi a tutti i costruttori di trattori che che , d'ora in avanti , dovranno allestire
secondo le norme europee le cabine dei trattori come se fossero uffici.
Buon Natale alle 830 aziende italiane che dal 1 gennaio 2008 ad oggi sono passate in mani
straniere per un valore di poco superiore ai 101 miliardi di euro: grazie per aver tradito, con il
prezioso sostegno dei nostri ministri , l ' art. 1 della Costituzione che recita " l' Italia è una
Repubblica fondata sul lavoro", il 44% dei giovani italiani disoccupati ringrazia.
Buon Natale agli operatori che hanno smascherato i produttori delle 7000 tonnellate di falso olio
extravergine Made in Italy , olio marcio, e che si sono adoperati per impedire ulteriori veleni nei
piatti agli italiani.
Buon natale ai nostri ministri col viso lindo e il labiale traboccante di parole a raffica, che davanti
ai microfoni delle tanto amate telecamere raccontano un sacco di balle ai cittadini , diffondendo
fumose parole di speranza che si trasformano sempre in cocenti delusioni e in promesse che mai
si potranno mantenere, tanto il loro portafogli non conosce rinunce e loro non vivono la piaga della
disoccupazione.
Buon Natale a tutti gli organizzazioni di Expo Milano , che dopo la soppressione dell 'agricoltore
italiano, le aziende agricole non ce la fanno più i prezzi dei cereali sono troppo bassi e quindi
stanno chiudendo, ci hanno raccontato , con le Multinazionali paganti al loro fianco, che vogliono
nutrire il Pianeta, buon natale perché sono arrivati finalmente i dati dell' OMS : ogni anno 600
milioni di persone si ammalano per infezioni alimentari il 40% è costituito da bambini al di sotto dei
cinque anni e le vittime sono 420.000 . Buon Natale OMS e grazie perché fai luce sulla battaglia
quotidiana dei cibi tossici , nella regione europea che comprende 53 paesi si ammalano 23 milioni
di persone e ne muoiono 5000 , in Africa si ammalano 91 milioni di persone e ne muoiono
137.000 , nella regione delle Americhe si ammalano 77 milioni di persone di cui 31 milioni sono
bambini e ne muoiono 9000 per cause legate ai cibi trattati con sostanze chimiche.
Buon Natale ai cari e amati contadini ecco perché vi hanno fatto sparire!
Buon Natale agli avvocati italiani che lavorano all ' estero perché in Italia i milioni di euro vengono
elargiti ai dirigenti Alitalia, Fs, Eni, e per loro non esiste lavoro.
Infine buon natale ai commissari dell 'Unione Europea che si son visti non approvare la loro
proposta di legalizzare gli OGM. In Europa : stiano sereni perché le deroghe alle Leggi sono
previste, per cui la Monsanto potrà produrre qualsiasi prodotto con i veleni che desidera.
Prof.ssa a Manfredini. Carolina
Docente di Scienze Umane.
PUBBLICATO SU BRESCIA OGGI IL 24 DICEMBRE 2015.

martedì 22 dicembre 2015

INFEZIONI DA CIBO E ARIA UGUALE TUMORI tutto legale

Infezioni alimentari: l’Oms pubblica per la prima volta le stime mondiali su malattie e morti

infezioni alimentari
Il 40% delle patologie alimentari colpisce bambini al di sotto dei cinque anni
Ogni anno almeno 600 milioni di persone si ammalano  per infezioni alimentari, il 40% è costituito da bambini al di sotto dei cinque anni e le vittime sono 420.000 . Sono le stime sulle malattie di origine alimentare a livello mondiale, diffuse per la prima volta dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Secondo il direttore del dipartimento per la sicurezza alimentare si tratta di valori prudenziali, essendo le cifre reali sicuramente molto più alte. L’Africa e Sud-Est asiatico sono le regioni più colpite.
Il rapporto dell’Oms fa anche una valutazione delle cause principali si tratta complessivamente di 31 agenti: due virus, 12 batteri, 14 parassiti e tre prodotti chimici. Alcuni provocano malattie, altri fattori invece sono la causa di complicazioni a livello neurologico e tumori.
sicurezza alimentare
Le patologie  di origine alimentare sono causate da: 2 virus, 12 batteri, 14 parassiti e 3 prodotti chimici
I dati sono i seguenti:
  • Nella regione europea, che comprende 53 Paesi, si ammalano 23 milioni di persone l’anno e ne muoiono cinquemila. La dissenteria è il disturbo maggiormente diffuso ed è collegato a  15 milioni di infezioni causate dal Norovirus e a cinque milioni dal Campylobacter.
  • In Africa, si ammalano 91 milioni di persone l’anno e ne muoiono 137.000, pari a un terzo dei decessi per problematiche alimentari in tutto il mondo. La dissenteria è responsabile del 70% delle malattie ed è causata principalmente dalla Salmonella non tifoidea, dal colera di origine alimentare e dall’E.coli. I rischi chimici (cianuro e aflatossine) causano un quarto dei decessi.
  • Nella regione delle Americhe, si ammalano 77 milioni di persone l’anno, di cui 31 milioni sono bambini; ne muoiono novemila, di cui duemila bambini. La dissenteria è responsabile del 95% delle malattie ed è causata principalmente da Norovirus, Campylobacter, E.coli e Salmonella non tifoidea.
  • donna malata a letto
    In Europa le infezioni alimentari colpiscono 23 milioni di persone
    Nell’Asia sud orientale, si ammalano 150 milioni di persone l’anno, di cui 60 milioni di bambini, e ne muoiono 175.000, di cui 50.000  bambini. La dissenteria è responsabile della maggior parte delle morti ed è causata principalmente da Norovirus, Salmonella non tifoidea ed E.coli patogeno. In questa regione si trova la metà delle persone che, a livello mondiale,  sono colpite e muoiono per febbre tifoidea o epatite A.
  • Nella regione mediterranea occidentale, si ammalano cento milioni di persone l’anno, di cui 32 milioni di bambini, e ne muoiono 37.000. La dissenteria è responsabile nel 70% dei casi ed è causata principalmente da E.coli, Norovirus, Campylobacter e Salmonella non tifoidea;
  • Nella regione del Pacifico occidentale, si ammalano 125 milioni di persone l’anno, di cui 40 milioni di bambini, e ne muoiono 50.000, di cui settemila sono bambini. L’aflatossina, causata da muffe sul grano, è la causa principale delle morti per malattie di origine alimentare e provoca il 70% dei decessi a livello mondiale per questa causa. L’aflatossina causa anche oltre diecimila casi di cancro al fegato ogni anno. In questa regione si registra anche il più alto tasso mondiale di morti causate da parassiti di origine alimentare.
Finora, le stime su questo problema erano vaghe e imprecise”  ha affermato la direttrice generale dell’Oms Margaret Chan. “La conoscenza degli agenti patogeni nelle diverse regioni del mondo, permette al pubblico, ai governi e all’industria alimentare di adottare misure mirate”. L’impatto politico e sociale del rapporto Oms sarà discusso nell’ambito di un simposio organizzato insieme all’Istituto olandese per la salute pubblica e l’ambiente i prossimi 15 e 16 dicembre ad Amsterdam.
© Riproduzione riservata

sostieniProva2Le donazioni si possono fare:

* Con Carta di credito (attraverso PayPal): clicca qui

* Con bonifico bancario: IBAN: IT 77 Q 02008 01622 000110003264

 indicando come causale: sostieni Ilfattoalimentare

VELENI nei piatti altra norma per LEGALIZZARLI

A pochi giorni dall’inchiesta che ha smascherato 7.000 tonnellate di falso olio extravergine Made in Italy, arriva in parlamento un provvedimento che depenalizza la contraffazione della designazione d’origine. Sì avete capito bene, se lo schema di decreto legislativo che prevede disposizioni sanzionatorie per la violazione del regolamento UE n. 29/2012, relativo alle norme di commercializzazione dell’olio di oliva e del regolamento CEE 2568/91),  le aziende che riportano in etichetta “segni, figure o illustrazioni in sostituzione della designazione dell’origine o che possono evocare un’origine geografica diversa da quella indicata…” (articolo 4 schema di decreto legislativo) se la possono cavare con una multa a 9.500 euro! In altre parole vendere miscele di extra vergine di oliva ottenuto con olio spagnolo, tunisino, greco o siriano come se fosse 100% italiano non sarà più reato, ma solo una infrazione.
La sanzione amministrativa sostituirà le possibili pene da 2 anni previsti per i reati di frode in commercio e per la contraffazione della designazione d’origine. Si arriva al paradosso che la sanzione inserita nel nuovo decreto legislativo al vaglio del Parlamento, sarebbe inferiore rispetto alla pena accessoria da 20.000 euro prevista  per il reato di contraffazione del Made in Italy inserita nel codice penale.
Sulle tavole degli italiani sarà insomma molto più facile trovare olio taroccato, anche perché l’importo della multa non rappresenta certo un deterrente sufficiente a scongiurare le frodi.
olio
La falsificazione dell’olio d’oliva potrebbe diventare una prassi corrente
Basta fare due conti per rendersene conto. Nell’ultimo anno una bottiglia di extra vergine 100% italiano era venduto a 1,0 euro al litro in più rispetto all’olio proveniente da Spagna e Grecia e 1,5 euro se l’olio era di origine extraeuropea. Prendendo ad esempio l’ultimo caso di cronaca, la truffa da 7.000 tonnellate di finto olio italiano scoperta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Bari avrebbe fruttato alle aziende interessate 7 milioni di euro di guadagno, a fronte del rischio di una sanzione amministrativa fino a 9.500 euro. Se il decreto legislativo verrà  promulgato, la falsificazione dell’olio d’oliva Made in Italy potrebbe diventare una prassi corrente.
Il tutto si nasconderebbe, come spesso accade, nelle pieghe della legge che, solo all’apparenza, salvaguarderebbe l’azione penale con la dicitura: “salvo che il fatto non costituisca reato…”.
C’è di più partendo da un principio elementare, sancito anche dalla Carta dei Diritti dell’Uomo che non si può essere processati due volte per lo stesso illecito (ovvero, come sentenziato dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo: “…Un procedimento penale non può quindi essere aperto per gli stessi fatti oggetto di una decisione amministrativa definitivamente confermata dai tribunali e passata quindi in giudicato…”), l’eventuale pagamento della sanzione amministrativa non permetterebbe alle procure di aprire un’indagine sul falso Made in Italy. Un passo indietro nella lotta contro l’Italian sounding e nella difesa del vero Made in Italy.
Alberto Grimelli (direttore Teatronaturale.it)
© Riproduzione riservata
il fatto alimentare.it

CIBI ITALIANI manipolazione continua della verità....

Per il 67% dei consumatori statunitensi, il termine “parmesan” non è affatto generico – come sostengono, invece, le industrie casearie americane – ma identifica un formaggio duro con una precisa provenienza geografica, che il 90% degli intervistati indica senza alcun dubbio nell’Italia. Lo rileva un’indagine condotta da Aicod per conto del Consorzio del Parmigiano Reggiano.
Nell’indagine, sono state mostrate agli intervistati due confezioni di “parmesan” made in Usa, di cui una senza richiami all’Italia e l’altra caratterizzata da evidenti richiami al Tricolore. Già nel primo caso il 38% dei consumatori ha indicato il prodotto come formaggio di provenienza italiana, ma di fronte alla confezione caratterizzata da elementi di Italian sounding (ad esempio la bandiera tricolore o monumenti e opere d’arte italiane) la percentuale è salita al 67%.
Per il presidente del Consorzio del Parmigiano Reggiano, Giuseppe Alai, si tratta di “un inganno, che negli Usa colpisce decine di milioni di consumatori e che costituisce un grave pregiudizio all’incremento delle nostre esportazioni e, conseguentemente, un danno palese anche per i nostri produttori”.
logo parmigiano reggiano
Per il presidente del Consorzio del Parmigiano Reggiano si tratta di un inganno
Gli Usa si collocano al terzo posto, dopo Germania e Francia, nella classifica delle esportazioni di Parmigiano Reggiano. Nel 2014, ne sono state esportate negli Usa 6.597 tonnellate, corrispondenti al 17,8% delle esportazioni complessive (44.000 tonnellate), e nei primi otto mesi del 2015 si è registrato un incremento del 28,8%. Secondo il Consorzio, questo flusso in crescita potrebbe letteralmente esplodere se venisse almeno ridotta la quantità di prodotto che negli Usa si richiama esplicitamente all’Italia.
Il problema dell’Italian sounding e della tutela dei prodotti europei a indicazione geografica protetta è uno dei punti più spinosi delle trattative sul TTIP, il Trattato di libero scambio tra Ue e Usa, di cui è relatore alla Commissione agricoltura e sviluppo rurale del Parlamento Europeo l’italiano Paolo De Castro, secondo il quale si tratta di fare un’alleanza con i consumatori statunitensi, che vengono ingannati. De Castro ha ricordato come la commissaria europea al commercio, Cecilia Malmstrom, abbia più volte ribadito che “senza un avanzamento su questo capitolo non ci sarà accordo”.
fonte www.ilfattoalimentare.it
AGGIORNAMENTO ore 20,00 del 15 dicembre 2015

Il  Ministero della giustizia e delle politiche agricole in serata hanno diffuso un comunicato stampa in cui precisa che, contrariamente a quanto scritto sino ad ora non sono previste depenalizzazione per la legge che tutela le diciture e le immagini sulle etichette dell’olio extravergine.   “Il testo dello schema di decreto legislativo recante disposizioni sanzionatorie relative all’olio d’oliva – si legge nel comunicato – non prevede alcuna depenalizzazione in materia di etichettatura e indicazione dell’origine; al contrario, aumenta fortemente le sanzioni amministrative e prevede ulteriori sanzioni per fattispecie nuove, oggi non punite. La prevalenza della norma penale verrà assicurata, in ogni caso e senza dubbi, anche chiarendo ulteriormente che, nel caso di individuazione di illeciti penali, le sanzioni amministrative non verranno applicate, in attesa degli esiti delle indagini penali.Sarà impegno del Governo quello di lavorare con le competenti commissioni parlamentari già dalle prossime ore per specificare e rafforzare la prevalenza delle fattispecie penali e il quadro sanzionatorio del decreto affinché possa adempiere alla sua finalità di integrare e irrobustire la legge Mongiello, e le vigenti norme del codice penale, e per continuare ad assicurare la coerenza con i lavori della Commissione Caselli”.
Di fronte alla proposta di un decreto legge confuso che lasciava spazio a interpretazioni ambigue erano scesi in campo: Slow Food, Unaprol, Teatronaturale.it e Giancarlo Caselli  presidente dell’Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura chiedendo di non  depenalizzare i reati connessi alla falsa etichettatura degli extravergini.

lunedì 21 dicembre 2015

830 aziende italiane vendute dal 2008 ? TTIP...in cambio OSSIA VELENI NEI PIATTI


TTIP ossia veleni nei piatti e AZIENDE VENDUTE ALL' ESTERO.....

Il Made in Italy è sempre meno italiano, dato che le aziende di punta del settore dell’industria, della moda e degli alimentari vengono acquisite con preoccupante costante da holding straniere. Gli ultimi casi sono la Telecom venduta agli spagnoli che stranamente, pur essendo indebitati più di noi, hanno acquisito l’azienda italiana, e quello dei cioccolatini Pernigotti, venduti dai Fratelli Averna al gruppo Sanset della famiglia Toksoz. Pernigotti è un'azienda storica con oltre 150 anni di attività. Ma ormai siamo avviati su una china molto pericolosa per l’occupazione e per l’approvvigionamento delle materie prime, che rischiano di spostarsi in terra straniera. A tutt’oggi, solo per l’agroalimentare sono stati venduti marchi per circa 10 miliardi di euro. Ma la domanda che bisogna porsi è: “queste aziende potevano sopravvivere nel mercato globale senza far parte di grossi gruppi industriali?".
Artigianato e tradizione spesso non vanno molto d’accordo con i ritmi e le pretese di un mercato in cui le spese di produzione si alzano e i profitti calano. Vendere è forse di vitale importanza per gli imprenditori, ma in tutto questo discorso si sente l’assenza dello Stato, che nulla sembra volere e potere fare per arrestare la dissoluzione del Made in Italy e, anzi, vessa sempre più le aziende con una pressione fiscale a livelli record. Non esiste settore che non sia stato toccato dalle mani delle ricche holding straniere. La strategia di questi gruppi è semplice: attendere il momento di difficoltà economica per appropriarsi di aziende con valore aggiunto notevole visto che, pur non più italiano al cento per cento, il prodotto italiano vende sempre e comunque, soprattutto all’estero.
Ecco così che una opportunità di crescita per il comparto esportazioni viene ridotta al lumicino dall’esternalizzazione della proprietà e, molto spesso, anche della produzione. Il primato sul bel vivere e vestire non ci appartiene più, è meglio farsene una ragione. Ma quello che preoccupa di più è l’acquisizione di negozi, supermercati, fabbriche, ristoranti, da parte di cinesi che ormai sono l’etnia più numerosa, specie nel Sud Italia. Qui di seguito c’è un elenco di aziende vendute all’estero, ma sono solo parte e quelle più conosciute:
-Pochi giorni fa la Telecom è stata venduta....la cosa più grave che l'hanno comprata gli spagnoli che stanno più inguaiati di noi....e il Presidente della Telecom dice:"Non ne sapevo niente" (sigh)...
-La Barilla è stata venduta agli americani...
-L'Alitalia è stata venduta ai francesi.
-La Plasmon è stata venduta agli americani.
-La Parmalat, di quel buon signore di Tanzi, è stata venduta ai francesi della Lactalis-
-L'Algida è stata venduta ad una società anglo-olandese
-L'Edison, antica società dell'energia, venduta ad una società francese, l'EDF
-Gucci è nelle mani della holding francese Kering
-BNL è controllata dal gruppo francese Bnp Paribas
-ENEL cede buona parte delle quote ai russi (il 49%)
-Il marchio AR, azienda conserviera quotata in borsa, di Antonino Russo, è passata ai giapponesi della Mitsubishi.
-Lo stabilimento AVIO AEREO è passato alla Generale Eletric...
-I cioccolatini Pernigotti dei fratelli Averna venduti ai turchi della famiglia Toksoz
-L’azienda Casanova, La Ripintura, nel Chianti, è stata recentemente acquisita da un imprenditore di Hong Kong
-I baci perugina appartengono dal 1988 alla svizzera Nestlè
-I gelati dell’antica gelateria del corso sempre alla Nestlè
-Buitoni: L'azienda fondata nel 1927 a Sansepolcro dall'omonima famiglia è passata sotto le insegne di Nestlè nel 1988.
-Gancia: le note bollicine sono in mano all’oligarca russo Rustam Tariko (proprietario tra l’altro della vodka Russki Standard) dal 2011.
-Carapelli è nella galassia del gruppo spagnolo Sos dal 2006, cosi come Sasso e Bertolli.
-Star. Il 75% della società fondata dalla famiglia Fossati (oggi azionisti di Telecom Italia) nel primo dopoguerra, è in mano alla spagnola Galina Blanca (entrata nel 2006 e poi salita del capitale del gruppo).
-Salumi Fiorucci: sono in mano agli spagnoli di Campofrio Food Holding dal 2011.
-San Pellegrino è stata acquisita dagli svizzeri della Nestlè dal 1998.
-Peroni è stata comperata dalla sudafricana Sabmiller nel 2003.
-Orzo Bimbo acquisita da Nutrition&Santè di Novartis nel 2008.
-La griffe del cachemire “Loro Piana”, fiore all’occhiello del made in Italy, è stata ceduta per l’80% alla holding francese Lvmh che già include simboli assoluti come Bulgari, Fendi e Pucci.
-Chianti classico (per la prima volta un imprenditore cinese ha acquistato una azienda agricola del Gallo nero)
-Riso Scotti (il 25% è stato acquisito dalla società alla multinazionale spagnola Ebro Foods)
-Eskigel (produce gelati in vaschetta per la grande distribuzione (Panorama, Pam, Carrefour, Auchan, Conad, Coop) (ceduta agli inglesi con azioni in pegno ad un pool di banche).
-Fiorucci–Salumi (acquisita dalla spagnola Campofrio Food Holding S.L.)
-Eridania Italia SpA (la società dello zucchero ha ceduto il 49% al gruppo francese Cristalalco Sas)
-Boschetti alimentare (cessione alla francese Financière Lubersac che detiene il 95%)
-Ferrari Giovanni Industria Casearia SpA (ceduto il 27% alla francese Bongrain Europe Sas) 2009
-Delverde Industrie Alimentari SPA (la società della pasta è divenuta di proprietà della spagnola Molinos Delplata Sl che fa parte del gruppo argentino Molinos Rio de la Plata) 2008
-Bertolli (venduta a Unilever, poi acquisita dal gruppo spagnolo SOS)
-Rigamonti salumificio SPA (divenuta di proprietà dei brasiliani attraverso la società olandese Hitaholb International)
-Orzo Bimbo (acquisita da Nutrition&Santè S.A. del gruppo Novartis)
-Italpizza (ceduta all’inglese Bakkavor acquisitions limited)
-Galbani (acquisita dalla francese Lactalis)
-Sasso (acquisita dal gruppo spagnolo SOS)
-Fattorie Scaldasole (venduta a Heinz, poi acquisita dalla francese Andros)
-Invernizzi (acquisita dalla francese Lactalis, dopo che nel 1985 era passata alla Kraft) 1998
-Locatelli (venduta a Nestlè, poi acquisita dalla francese Lactalis)
-San Pellegrino (acquisita dalla svizzera Nestlè) 1995
-Stock (venduta alla tedesca Eckes A.G., poi acquisita dagli americani della Oaktree Capital Management) 1993
-La Safilo (Società azionaria fabbrica italiana lavorazione occhiali), fondata nel 1878, che oggi produce occhiali per Armani, Valentino, Yves Saint Laurent, Hugo Boss, Dior e Marc Jacobs, è diventata di proprietà del gruppo olandese Hal Holding.
-Nel settore della telefonia, a Milano nel 1999 era nata Fastweb, una joint venture tra e.Biscom e la comunale Aem che oggi fa parte del gruppo svizzero Swisscom.
-Nel 2000 Omnitel è passata di proprietà del Gruppo Vodafone
-Nel 2005 Enel ha ceduto la quota di maggioranza di Wind Telecomunicazioni al magnate egiziano Sawiris, il quale nel 2010 l'ha passata ai russi di VimpelCom.
-Nel campo dell'elettrotecnica e dell'elettromeccanica nomi storici come Ercole Marelli, Fiat Ferroviaria, Parizzi, Sasib Ferroviaria e, recentemente, Passoni & Villa sono stati acquistati dal gruppo industriale francese Alstom, presente in Italia dal 1998.
-Nel 2005 le acciaierie Lucchini spa sono passate ai russi di Severstal, mentre rimane proprietà della omonima famiglia italiana, la Lucchini rs, che ha delle controllate anche all'estero.
-Fiat Avio, fondata nel 1908 e ancora oggi uno dei maggiori player della propulsione aerospaziale, è attualmente di proprietà del socio unico Bcv Investments sca, una società di diritto lussemburghese partecipata all'85% dalla inglese Cinven Limited.
-Benelli, la storica casa motociclistica di Pesaro, di proprietà del gruppo Merloni, nel 2005 è passata nelle mani del gruppo cinese QianJiang per una cifra di circa 6 milioni di euro, più il trasferimento dei 50 milioni di euro di debito annualmente accumulato.
-Nel 2003 la Sps Italiana Pack Systems è stata ceduta dal Gruppo Cir alla multinazionale americana dell'imballaggio Pfm Spa.
-In una transazione di meno di un mese fa Loquendo, azienda leader nel mercato delle tecnologie di riconoscimento vocale, che aveva all'attivo più di 25 anni di ricerca svolta nei laboratori di Telecom Italia Lab e un vasto portafoglio di brevetti, è stata venduta da Telecom alla multinazionale statunitense Nuance, per 53 milioni di euro.
fonte www.mezzostampa.it





28 luglio 2015
L'Italia perde un altro pezzo della storia industriale: Italcementi è da ieri sera un'azienda tedesca, dopo che HeidelbergCement ha acquisito dalla famiglia Pesenti il 45% del gruppo cementifero bergamasco, prima di lanciare un'Opa obbligatoria sul resto del capitale. Un blitz che porta in Germania una società quotata in Borsa dal 1925 e fondata nel 1864. Nasce così il secondo gruppo cementifero europeo, dopo la fusione tra Holcim e Lafarge, che riavviato il consolidamento del settore che ora arriva fino a Italcementi. L'operazione era nell'aria da tempo, stando ai report di settore di molte banche. La fusione si è realizzata in poche ore anche per questo, ed ha visto come unico advisor per l'Italia Mediobanca. Il finanziamento per complessivi 4,4 miliardi arriva da un consorzio di banche che fornirà un finanziamento ponte, prima di un aumento di capitale in azioni proprie del gruppo tedesco. Alla fine dell'operazione, Italmobiliare - holding della famiglia Pesenti - avrà una quota oscillante tra il 3,96% ed un massimo del 5,29% di HeidelbergCement.
Cosa prevede l'accordo
L'accordo prevede l'acquisto della partecipazione detenuta da Italmobiliare nel capitale azionario di Italcementi (pari al 45% del capitale, rappresentato da 157,2 milioni di azioni) ad un prezzo di 10,60 euro per azione, che rappresenta un premio del 70,6% rispetto al prezzo medio ponderato di Borsa degli ultimi 3 mesi, per un controvalore totale di 1.666 milioni di euro. Sulla base di questa valutazione, tenuto anche conto della posizione finanziaria netta e il valore delle minoranze, l'Enterprise Value di Italcementi è pari a circa 7 miliardi di euro. Ad Italmobiliare, come parte del corrispettivo della transazione, di azioni ordinarie HeidelbergCement, tramite un aumento di capitale riservato, per un numero compreso fra 7,75 milioni e 10,5 milioni di azioni a scelta di Italmobiliare che corrisponde a un controvalore di 560 e 760 milioni di euro. Il completamento dell'operazione subordinatamente alle approvazioni da parte delle autorità antitrust è previsto entro il 2016. Successivamente al closing dell'operazione, per effetto dell'acquisizione della partecipazione in Italcementi, HeidelbergCement sarà tenuta a lanciare un'Offerta Pubblica di Acquisto Obbligatoria per cassa sul restante capitale di Italcementi al medesimo prezzo per azione corrisposto ad Italmobiliare. Ad Italmobiliare andranno le partecipazioni detenute da Italcementi nel settore delle energie rinnovabili (Italgen) e del settore eprocurement (BravoSolution), oltre ad alcuni immobili. Il valore complessivo di queste transazioni è di circa 241 milioni di euro.
Italcementi, il colosso da 17 miliardi di euro
Italcementi opera in 22 Paesi con 46 cementerie, 12 centri di macinazione, 417 centrali di calcestruzzo, 98 cave di inertie 6 terminali. Ad oggi ha circa 18.000 dipendenti. In Italia ha 11 cementerie, 6 centri di macinazione, 104 impianti per il canclestruzzo e 22 cave di inerti. La fusione con Heidelberg dà vita ad un gigante con una capacità produttiva totale di circa 200 milioni di tonnellate di cemento, 275 milioni di tonnellate di aggregati e 49 milioni di metri cubi di calcestruzzo, con un fatturato pro-forma 2014 di circa 16,8 miliardi di euro realizzato in oltre 60 Paesi presenti in 5 continenti. "Con questa operazione rafforziamo il futuro di Italcementi e garantiamo le risorse per un ulteriore sviluppo del portafoglio di investimenti di Italmobiliare" ha commentato Carlo Pesenti, ceo di Italcementi. "La combinazione di HeidelbergCement e Italcementi è ideale. Nel settore non esistono altri due maggiori gruppi con una tale complementarietà geografica - ha spiegato Bernd Scheifele, ceo di HeidelbergCement - vediamo un potenziale significativo per creare valore, realizzando sinergie e combinando i nostri standard di eccellenza operativa e commerciale con i risultati raggiunti nella Ricerca e Sviluppo da Italcementi. HeidelbergCement è organizzata in modo decentralizzato con forti management e marchi locali". Domani è previsto il cda di Itacementi, solo giovedì invece ci sarà la conference call con gli analisti, dove verrà spiegata a fondo l'operazione.
gio 2015. fonte www,panorama.it

lunedì 14 dicembre 2015

http://www.iubilaeummisericordiae.va/content/gdm/it/giubileo/bolla.html

sabato 12 dicembre 2015

STORIA DELLA SIRIA infinita

STORIA DELLA SIRIA Per capire il presente serve esercitare la memoria. Indice Chi sono i Curdi? Un popolo senza Stato. Ali il successore di Maometto,.ossia Sciiti e Sunniti e altri nomi sconosciuti. Chi sono i curdi? Perchè sono da sempre condannati a ogni sopruso? Sono gli antichi Medi , una popolazione iranica del Kurdistan. Se si potesse azzardare una tesi di tipo irrazionale si potrebbe affermare: dove nacquero i primi uomini, l’ Eden, il Paradiso terrestre non potrà mai esserci pace,perchè la pace è altrove. Nel cuore del territorio settentrionale sgorgano infatti le sorgenti dei due fiumi biblici Tigri e Eufrate, che con i loro affluenti rendono molto fertile i terreni. Il Kurdistan turco con le sue alte montagne, noi cristiani ricordiamo l’ Ararat, ci offre un ulteriore segno dei tempi: fu infatti su tal monte, alto cinque mila metri, che si arenò l’Arca biblica di Noè. Miti e misteri si intrecciano continuamente in questa terra sfortunata ma eternamente presente nella storia. Si narra, in una famosa leggenda, che in questa terra esistevano molti laghi. Chi si bagnava nelle loro acque poteva ottenere il dono dell’’ eternità. Se un popolo aggredito da secoli esiste ancora, possiamo affermare che forse è davvero immortale. Ecco da dove arriva l’ odio! Le storie degli uomini in ogni parte della terra sono segnate da rituali, miti, credenze che trafiggono come spade i popoli nella loro cultura, nel loro modo di consegnarsi alla storia.. Altri popoli non hanno mai conosciuto alcuna forma di evoluzione sociale e di progresso, e sono sempre stati condannati alla violenza e all’ odio eterno. O si tratta forse di un amore mai dichiarato? No, è odio, desiderio di rendere cenere le loro carni. Mai nessuno riuscirà a cancellartli dalla terra, su questo stiamo tranquilli. Divisi in tribù nomadi di allevatori e guerrieri, era curdo il famoso Saladino, che cacciò i crociati dalla Terrasanta e sottomise l’Egitto nel XIII secolo, i curdi sono di religione islamica sunnita. La terra dei curdi, letteralmente Kurdistan, occupa un’ area di 475 mila kilometri quadrati, è un area compatta del Vicino e Medio Oriente che si estende tra il mar Nero, le steppe della Mesopotamia, l’ Anti-Tauro e l’ altopiano iranico. Il Kurdistan settentrionale comprende 18 delle 67 province turche, quello orientale si estende su 4 delle 24 province iraniane, quello meridionale comprende 4 delle 18 province irachene. Le prime tre formano una regione autonoma chiamata regione del Nord. Il popolo curdo ha una storia incredibile, incomprensibile: non fu mai uno Stato autonomo, mai libertà, mai istituzioni degne di queste nome, un popolo quello curdo che rappresenta un termine di paragone tra logica e politica, tra poteri occulti e brama di petrolio. Capire il dramma curdo significa capire il dramma del medio oriente tutto. Come se in quella terra una sorta di energia primordiale potente impedisse per sempre la pace e la convivenza. I problemi quali sono? Il primo: nessun stato li riconosce come popolo, pochi popoli nella storia li hanno aiutati. Facciamo un elenco delle disgrazie curde? Proviamoci, non è semplice, serve informarsi, leggere molto, e alla fine ancora non sembra vero ma è cosi: i curdi sono stati da sempre sotto attacco, e nessuno ai piani alti se ne è mai occupato seriamente, per interesse ovviamente. Possibile? Si è possibile. Ho provato a costruire un elenco delle calamità , ho cercato di segnarmi in fila i fatti storici più importanti cosi come esposti nel meraviglioso testo di Mirella Galletti, I Curdi nella storia testo che ogni europeo dovrebbe conoscere a memoria. Ho provato a definire, sia chiaro senza vane pretese di esaustività , un elenco delle calamità tutte tese ad eliminare, perchè di questo si tratta, il popolo curdo:  proverbio arabo: nel mondo vi sono tre calamità le locuste, i topi e i curdi;  le circostanze internazionali non hanno mai permesso ai curdi di costituirsi come popolo autonomo;  sono simili per disgrazie ricevute agli ebrei, agli armeni e ai polacchi;  fine prima guerra mondiale, divisione del Kurdistan tra Turchia, Iraq e Siria, stati che li emarginano e perseguitano con veri etnocidi, in particolare il tentativo di etnocidio fu perpetrato dalla Turchia di Atatùrk e dall’ Iraq bathista;  i territori curdi sono teatro di scontri e operazioni di guerra, si impiegano armi chimiche e di distruzione di massa al fine di impedire ai curdi di sollevarsi dagli attacchi, molte le deportazioni;  le aspirazioni all’ indipendenza curda vengono strumentalizzate dalle potenze imperialiste;  i curdi vengono ricattati dalle potenze straniere e internazionali al fine di metterli a tacere, poi capiremo il perchè;  i curdi giocoforza vengono isolati, si dividono in gruppi, quattro in totale, con diverse aspirazioni;  essendo divisi non hanno e non possono beneficiare di una strategia comune di combattimento;  fa eccezione a questa frammentazione la repubblica di Mahabad in Iran nel 1946 e le lotte curde in Iraq sotto la guida di Molla Mustafa Barzani dal 1961 al 1975;  i curdi, elemento fondante, sono consapevoli di costituire una etnia specifica rispetto ad altri popoli vicini, possiedono una grande e infinita coscienza nazionale;  il territorio curdo, formato da 25 milioni di persone, è ricchissimo di risorse, lo avevamo già capito : possiedono nel loro suolo e sottosuolo petrolio, minerali pregiatissimi, risorse agricole enormi;  possiedono pecore e lane di altissima qualità commerciale, prodotti caseari di pregio, l’ immagine del curdo è il pastore, quello nomade del presepe;  possiedono fosfati, lignite,rame, ferro,cromo,petrolio-nelle province di Elazig e Siirt nel Kurdistan turco, giacimenti di cromo a Maden tra i più importanti al mondo, il Kurdistan meridionale produce il 75% del greggio iracheno;  i curdi sono da sempre sottoposti a politiche di decurdizzazione, nessuno li ha mai del tutto decurdizzati e nessuno mai ci riuscirà;  il greggio curdo viene estratto con l’ aiuto dei russi;  a causa delle nefaste politche nazionali ed internazionali le risorse del paese non sono sfruttate nel territorio curdo ma altrove, cosi nel loro territorio resta solo povertà;  la divisione in 4 stati del territorio curdo ne ha devastato l’ economia;  la delimitazione delle frontiere nel 1925 ha distrutto la transumanza, creando una forma di sedentarietà forzata devastante;  la loro religione antica era la magia, praticata dai Medi, il popolo citato negli Atti degli Apostoli i Parti e i Medi; possiedono tradizioni ascetiche importanti;  sono islamici dal 637 nella fede sunnitra;  abbracciano la fede islamica che contiene ideali universalizzanti;  rinunciano da islamici a costituire un loro stato; ma mai sono stati fanatici, i curdi di fatto non sono mai stati molto religiosi;non amano i riti esteriori;  In Turchia e Siria è proibito stampare qualsiasi articolo o testo in lingua curda;  In molti paesi arabi è proibito ascoltare musica curda;  In Iraq esistono numerose pubblicazioni curde, sottoposte a una censura rigorosissima;  il dramma della lingua curda è il suo mancato insegnamento nel Kurdistan;  nel 1787 il domenicano italiano Maurizio Garzoni pubblicò , primo in Occidente, la Grammatica e vocabolario curdo, azione che valse a questo italiano il titolo di padre della linguistica curda;  In Italia questo grande intellettuale, Garzoni, come mai non è citato nelle enciclopedie?  Sono famosi in tutto il mondo come letterati, poeti e sapienti cultori della loro patria;  Bagdad resta il centro più importante della cultura curda che si è espressa solo in questa città e in Russia;  La rinascita kurmangi è oggi presente in Usa, Francia, e in molti altri paesi europei, nei quali si sono da tempo trasferiti moti intellettuali curdi.  ci hanno provato, senza riuscirci, Ataturk che voleva renderli turchi, lo scià Resa Pahlavi che voleva persianizzarli, i Ba’th iracheni e siriani che volevano arabeizzarli;  i curdi sono 25 milioni, il numero, non esistendo censimenti, non è esatto ma 25 milioni di persone non sono poche, non si possono relegare a piccola etnia, costituiscono dal punto di vista demografico il quarto popolo del Vicino e Medio Oriente dopo arabi, persiani e turchi;  I curdi sono l’ unica etnia più numerosa che, a livello modiale, non si è mai costituita come Stato;  Noi chiediamoci sempre il perchè, stiamo concentrati, le risposte arriveranno;  È come porsi la seguente domanda: come mai l’ esercito italiano non è sceso in campo, tutto, per difendere Peppino Impastato, Falcone e Borsellino, non la scorta ma l’ esercito italiano; se abbiamo la risposta capiamo tutta la politica italiana e curda;  Il Kurdistan, ricordiamo sempre, non ha stato legale è come se fosse una terra di frontiera;  Il metodo più famoso per distruggere il popolo curdo è sempre stato uno: distruggere la loro lingua;  Diaspora curda : è di immense proporzioni. Unione Sovietica mezzomilione di curdi dispersi in Armenia, Arzebaigian, Georgia, Kazakistan, in Libano 50 mila curdi, Gerusalemme possiede un quartiere curdo dal 1929 si chiama Zikhron Yusef, e poi ancora Istambul, Ankara, Izmir, Adana, Tehran, Bagdad, Beirut, Aleppo, Damasco dove dal XII secolo esiste il quartiere curdo Salhiyya, Germania 300 mila, Francia 60 mila di cui tre mila rifugiati politici, Svezia 12 mila rifugiati politici, Gran Bretagna 15 mila, Italia 300, Stati Uniti 3 mila, Canada 2000, Australia 5 mila. Questa è la diaspora curda, di dimensioni allarmanti. Ma il mondo tace.  1912: facciamo qualche passo avanti: a Londra viene fondata la Turkish Petroleum Company, cercano petrolio in arabia, con Banca turca, controllata dagli inglesi, e con il 25% della Banca tedesca Deutsche Bank; la Anglo Iranian sostituì la banca turca;  Mosul e Bagdad ricche di petrolio sono degli europei, inglesi, tedeschi, siamo alla prima guerra mondiale;  durante la prima Grande Guerra viene emanata una legge, composta da 12 articoli, per deportare i curdi dalle loro terre, il loro posto doveva essere preso da chi? Dai turchi. E dietro ai turchi sappiamo chi c’ era, gli europei.  700.000 curdi vengono deportati, secondo il registro di Costantinopoli; 600.000 curdi moriranno tra il 1915-1918;  Kurdistan e Arzebaigian cadono alternativamente in mani, russe, turche ,inglesi;  1915: massacro dei popoli armeni, vi partecipano anche i curdi; li misero l’ un contro l’ altro armati, invece potevano stare insieme e cacciare gli europei;  Durante il conflitto nel 1916 Francesi e Inglesi conclusero un accordo segreto, smembrare tutto il possibile;  zona britannica Mesopotamia, Palestina, Giordania, zona Francese Siria, Libano era l’ accordo Sykes-Picot dai nomi dei ministri degli esteri dei due paesi;  Mosul, francese, e inglese, dove vi è il petrolio troviamo francesi e inglesi e presidiarlo;  ancora oggi dopo i fatti cruenti di Parigi del 13 novembre 2015 la città di Mosul viene spesso invoncata dai reporter di tutto il mondo,tanto la gente non capisce;  la Russia dice ok, per mano del suo ministro Sazonov ma chiede in cambio altre regioni petrolifere, parliamo della russia degli zar, dice che va bene, chiede Trebisonda e il Kurdistan meridionale , accontentati;  gli europei iniziano le loro politiche subdole , cercando di attirarsi le simpatie dei curdi;  gli americani promettono ,lo dice Woodrom T. Wilson nel 1918, autonomia ai curdi; solo promesse perchè non andando d’ accordo con gli armeni non se ne farà nulla;  Siamo alla conferenza di pace di Parigi, 1919; ora litigano con gli armeni;  T.P.C: Petrolio: 75% agli inglesi, 25% ai francesi; 1920;  1920, Trattato di Sevres, finalmente arriva l’ indipendenza: artt. 62, 63, 64 del trattato, i curdi avranno un loro stato, potranno trasformare il Kurdistan ottomano in stato curdo;serviva una cintura tra Russia e Turchia;  la Turchia aveva perso la guerra, si trovava a fare i conti con la possibile indipendenza curda? Mai. Infatti non firmarono l’ accordo, le debolezze del trattato di Sevres erano già in nuce;  nuovo trattato si cambia città, si  va a Losanna, siamo al 24 luglio 1923, tradimento ai curdi nessuna libertà per loro, la Turchia non voleva, disse “ i curdi sono turchi”... non se ne farà nulla;  il Kurdistan ottomano sarà quindi diviso in 3 stati diversi; Siria,Turchhia, Iraq;  in realtà sono 5 gli stati che giocano con il popolo curdo: URSS, Iraq, Turchia, Iran, Siria; (ANSA) - ISTANBUL, 28 NOV.2015 - La polizia turca ha disperso con cariche e cannoni ad acqua centinaia di manifestanti turchi che si erano riuniti su viale Istiklal, nel centro di Istanbul, per un corteo di solidarietà dopo l'omicidio di stamani a Diyarbakir del capo degli avvocati curdi locali, Tahir Elci. 28 nov. 15 Afferma Putin: Sono "assolutamente inspiegabili le pugnalate alla schiena a tradimento da coloro che ritenevamo partner e alleati nella lotta al terrorismo": lo ha dichiarato Vladimir Putin riferendosi all'abbattimento due giorni fa di un jet militare russo da parte di F-16 turchi nei pressi della frontiera turco-siriana per un presunto sconfinamento. "Finora non abbiamo sentito le scuse dal massimo livello politico turco né tantomeno le proposte di risarcire i danni e di punire i criminali per il reato commesso": lo ha detto Putin riferendosi all'abbattimento del jet russo alla cerimonia per le credenziali dei nuovi ambasciatori stranieri. "C'e' l'impressione che le autorità turche portino deliberatamente i rapporti con la Russia in un vicolo cieco, ha detto Putin ricevendo al Cremlino le credenziali dei nuovi ambasciatori stranieri. Erdogan risponde alla accuse di Mosca: "Quelli che dicono che noi compriamo il petrolio da Daesh (l'Isis, ndr) devono provarlo". E poi aggiunge: "La Russia non sta combattendo davvero l'Isis in Siria, sta uccidendo turcomanni e siriani a Latakia". Mosca intanto prepara misure economiche restrittive contro Ankara: lo annuncia il premier Medvedev precisando che il governo russo entro 2 giorni presenterà proposte in tal senso e che le misure non avranno una scadenza prefissata. Il premier russo propone anche di interrompere i negoziati con Ankara per il trattamento economico preferenziale. Il rafforzamento dei controlli delle autorità russe sui prodotti alimentari turchi e' "dovuto a diversi fattori" tra cui anche una possibile minaccia terroristica: lo ha dichiarato il portavoce di Putin, Dmitri Peskov. Sulla questione sono intervenuti nuovamente gli Stati Uniti: "La decisione di Mosca di schierare i sistemi di difesa anti missilistica S-400 alla base militare russa a Latakia non fa che complicare la situazione e non favorisce la lotta all'Isis, sostiene l'ambasciata Usa in Russia, citata da Interfax, aggiungendo di augurarsi che gli S-400 non siano rivolti contro gli aerei della coalizione a guida Usa. 28 nov.15 Un carico di circa 800 fucili a pompa, provenienti dalla Turchia e diretti in Germania, Olanda e Belgio, è stato scoperto e sequestrato dalla Guardia di Finanza e dalle Dogane al Porto di Trieste. Le armi erano trasportate, senza autorizzazioni, da un autoarticolato olandese condotto da un cittadino turco. Il titolare turco della ditta produttrice è stato denunciato per violazione del testo unico di pubblica sicurezza. Il carico era composto da 781 fucili a pompa modello "Winchester SXP" da 12-51 cm, 66 fucili a pompa "Winchester SXP" da 12-41 cm. e 15 calci per fucile. Il Tir era sbarcato a Trieste il 23 novembre scorso. Le armi erano contenute in centinaia di scatole di cartone, ciascuna delle quali contenente un fucile a pompa, tutte dirette in Belgio. Data la particolarità del carico, la sua provenienza e la destinazione, le Fiamme Gialle e i funzionari doganali hanno voluto approfondire la documentazione. Sebbene non vi fossero irregolarità di tipo doganale, non era stata chiesta autorizzazione alle Autorità di pubblica sicurezza per il trasporto. La normativa infatti, prevede che prima di iniziare il trasporto, anche se non destinato al territorio nazionale, esso debba essere autorizzato dall'Autorità di Ps. Tutto il Tir è stato sottoposto ieri ad analisi 'scanner', per escludere l'ipotesi della presenza di altre armi nascoste. E' quindi scattato il sequestro, su richiesta della Procura della repubblica di Trieste, con la denuncia del titolare dell'azienda turca produttrice, per la violazione del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Foto scattata a Parigi in uno dei luoghi degli attentati del 13 novembre 2015 1 dic. 15 (ANSA) - BEIRUT, 1 DIC.2015. - Almeno sette persone sono state uccise e decine ferite in un doppio attacco effettuato con barili-bomba sganciati da elicotteri del regime su un ospedale di Medecins sans Frontieres (Msf) in una località a nord est di Homs. Del bombardamento, avvenuto sabato, dà notizia oggi la stessa Msf. Il presidente americano, Barack Obama, ha esortato oggi a Parigi - in un incontro con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan - la Turchia e la Russia a concentrarsi "sul nemico comune", Daesh. "Abbiamo parlato del modo in cui la Turchia e la Russia potrebbero lavorare per ridurre le tensioni", ha detto Obama interrogato sulla crisi fra Ankara e Mosca al termine dell'incontro con Erdogan. "Come ho detto a Erdogan - ha aggiunto il capo della Casa Bianca - abbiamo tutti un nemico comune che è l'esercito islamico, e voglio essere sicuro che ci concentriamo su questa minaccia". Ed è gelo tra Ankara e Mosca. Non solo un portavoce del Cremlino ha fatto sapere che Vladimir Putin non incontrerà il presidente turco Tayyip Recep Erdogan a margine della Conferenza sul clima ma volano accuse pesantissime sulla videnda del jet abbattuto. La Russia - ha detto il presidente russo Vladimir Putin - ha motivo di "sospettare che il Su-24 sia stato abbattuto per assicurare forniture illegali di petrolio dall'Isis alla Turchia". Lo riporta l'agenzia russa Tass. "Abbiamo recentemente ricevuto informazioni aggiuntive che confermano che il petrolio proveniente dalle zone controllate dall'Isis viene consegnato in Turchia su scala industriale", ha aggiunto Putin, ribadendo le accuse sul supporto finanziario ai terroristi. Rispondendo ad una domanda sulle intenzioni di Mosca di formare un'ampia coalizione anti-terrorismo, il presidente russo ha proseguito che questo "è quanto sempre sostenuto". Ma, ha aggiunto secondo quanto riportato dalla Tass, "ciò non può essere fatto mentre qualcuno continua a utilizzare diverse organizzazioni terroristiche per raggiungere i propri obiettivi". E il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha detto di essere pronto a dimettersi se le dichiarazioni di Putin fossero confermate, riporta sempre la Tass. "E' immorale accusare la Turchia di comprare il petrolio dall'Isis. Se ci sono i documenti, devono mostrarli, vediamoli. Se questo viene dimostrato, io non rimarrò nel mio incarico. E lo dico a Putin: lui manterrà il suo incarico?", ha detto Erdogan alla stampa internazionale a margine della conferenza sul clima a Parigi. Il presidente americano, Barack Obama, ha detto al presidente russo, Putin che Bashar al Assad deve lasciare il potere. Lo afferma - riporta l'agenzia Bloomberg - la Casa Bianca, riferendo della bilaterale fra i due leader a margine dei lavori del vertice sul clima a Parigi. Obama e Putin hanno messo in evidenza l'importanza di fare progressi nel "processo di Vienna" per arrivare a "un cessate il fuoco" e a "una soluzione politica alla guerra civile in Siria". Obama ha ribadito che sarà necessario che Assad lasci il potere nell'ambito della transizione e messo in evidenza la necessità di concentrare gli sforzi militari contro l'Isis e non contro l'opposizione moderata" afferma la Casa Bianca. Obama ha sottolineato l'importanza di lavorare a una soluzione diplomatica alla crisi in Ucraina con la piena attuazione degli obblighi degli accordi di Minsk. Intanto il premier britannico David Cameron ha fatto sapere che riunirà il Parlamento mercoledì per "discutere" e quindi "votare" sui raid aerei da parte della Gran Bretagna in Siria contro lo Stato Islamico. RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA 1.dic.2015 UNA BELLA NOVITA’ 2 dic. 15 Continua la saga della guerra di Anonymous allo Stato Islamico. Il collettivo di 'hacktivisti' più celebre del web ha infatti pubblicato un nuovo video - in diverse lingue e tra queste c'è l'italiano - in cui minaccia senza mezzi termini l'Isis: "Sappiamo che ci temete, sappiamo che vi nascondete come topi in trappola. E non ci fermeremo". Ma soprattutto - e questa è la vera novità, al di là della retorica - sposta il fronte della 'battaglia': "Stiamo arrivando sempre più vicino ai tuoi padroni". Il video è stato diffuso dall'account Twitter OpParisOfficial, ovvero la 'sezione' di Anonymous che aveva fatto parlare di sé in tutto il mondo all'indomani degli attacchi nella capitale francese. La promessa, allora, era stata di dare la caccia online ai fiancheggiatori dell'Isis oscurando i profili dei membri - o dei simpatizzanti - dello Stato Islamico; annuncio seguito da un intenso battage 'pubblicitario' per dimostrare l'efficacia della guerra scatenata in rete ai tagliagole jihadisti. Operazione che, però, ha suscitato non pochi dubbi visto che, nella 'lista nera' degli oltre 20mila profili a rischio stilata dal gruppo di hacker, sono comparsi pure l'account Twitter del presidente degli Stati Uniti Barack Obama e quello di Bbc News, come ha riferito la stessa-Bbc. Secondo la verifica condotta dall'emittente britannica, nella lista sono stati indicati anche i profili di Hillary Clinton, della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato, tra gli altri. Account che chiaramente non sono stati disattivati, ma che con tutta probabilità sono stati 'rastrellati' in seguito a riferimenti al tema citati nei post pubblicati. Ora, ad ogni modo, il salto di qualità. "Dopo il brutale attacco terroristico che ha colpito Parigi - dichiara un portavoce del gruppo adottando lo stile da telegiornale già usato in un video precedente - 'OpParis' è nata per oscurare in rete quel cancro che i governi diffidano dal voler estirpare per l'evidente movimento di denaro che gira attorno all'Isis". Insomma, a suscitare l'interesse degli hacker di Anonymous adesso sono più i 'mandanti' che i sicari stessi. Non è chiaro a cosa alludano gli attivisti di 'OpParis' - quando si parla di Anonymous sfruttare una parte per parlare del movimento nel suo complesso è sempre rischioso, vista l'insita 'anarchia' che li caratterizza - ma sicuramente puntano a spostare l'attenzione sulle 'relazioni pericolose' che forse esistono tra la sanguinosa sigla jihadista e alcune nazioni dell'area. Proprio oggi, d'altra parte, il presidente russo Vladimir Putin ha accusato la Turchia di acquistare sottobanco il petrolio dall'Isis. "Anonymous - prosegue ad ogni modo il portavoce dal volto coperto con la tradizionale maschera di Guy Fawkes - non si ferma davanti agli attacchi informatici in risposta ai nostri 12mila profili jihadisti oscurati negli ultimi 15 giorni: ci hanno insultati, ci hanno minacciati di morte. Ma Anonymous è una legione solida che agisce in tutto il mondo per il bene dei propri fratelli offesi nei loro diritti umani, calpestati da vigliacchi criminali. Sappiamo che ci temete, sappiamo che vi nascondete come topi in trappola: ricordate che OpParis non si fermerà". Chi sono i Sunniti? All’interno dell’Islam la maggioranza dei fedeli è rappresentata dai sunniti. Alcune minoranze (10-15%) sono denominate sciiti, dall’arabo shi‘at ‘Ali «la fazione di ‘Ali», il cugino e genero di Maometto.La loro origine risale alla morte del Profeta che, secondo gli sciiti, avrebbe designato come successore ‘Ali, in quanto apparteneva alla sua stessa famiglia.Gli studiosi distinguono tra uno sciismo politico (i sostenitori politici di ‘Ali) e unosciismo religioso rappresentato dagli alidi (portavoce di teorie messianiche),che negli anni si sono fusi.Gli sciiti si dividono in tre nuclei principali: zayditi, ismailiti e imamiti (fonte: Enciclopedia Treccani Origini storico-politiche La successione a Maometto è all’origine della grande divisione tra i sunniti, che rappresentano l’ortodossia dell’Islam, e gli sciiti. Questi ultimi infatti ritengono che Maometto nel 632 avrebbe designato il genero ‘Ali a succedergli. Secondo gli sciiti è Dio che, attraverso Maometto, ha indicato il successore del Profeta. Questa è la premessa dalla quale nacque lo sciismo, che però non si organizzò subito: infatti a Maometto, dopo la sua morte, seguirono i califfi ben guidati (califfato). Dopo l’uccisione del terzo califfo, ‘Uthman (656), ne prese il posto ‘Ali, che avrebbe dovuto vendicarne la morte, cosa che però non fece. In tal modo ‘Ali si rese lui stesso colpevole: allora Mu‘awiya, governatore della Siria e nipote di ‘Uthman (appartenente cioè alla famiglia degli Omayyadi), per vendicare la morte dello zio attaccò ‘Ali, che alla fine accettò un arbitrato. Uscito sconfitto dall’arbitrato, ‘Ali perse anche una parte dei suoi sostenitori (kharijiti), uno dei quali lo ucciderà nel 660. Un altro episodio può considerarsi l’evento-simbolo per eccellenza degli sciiti: l’uccisione di Husayn, uno dei due figli di ‘Ali e Fatima (figlia di Maometto). Alla morte di ‘Ali, infatti, la guida della comunità (il ruolo di imam) passò a suo figlio maggiore Hasan e quindi al fratello Husayn, il quale mosse contro gli Omayyadi e a Kerbela venne trucidato con i suoi seguaci. Il martirio di Husayn è celebrato ancora oggi in tutto il mondo sciita e Kerbela (nell’attuale Iraq) è divenuta città santa (oltre a Samarra e al-Najaf). Questo episodio è all’origine del grande valore attribuito alla sofferenza al martirio da parte degli sciiti (imamiti). Differenze con i sunniti Lo sciismo è considerato un’eresia dell’Islam, ma si tratta di un’interpretazione impropria poiché le sue basi teologiche sono le stesse del sunnismo: la rivelazione coranica e la profezia di Maometto. Secondo gli sciiti, tuttavia, il Corano è creato, mentre i sunniti vedono in tale affermazione una messa in discussione del profondo monoteismo islamico e sostengono invece che il testo sacro è increato, cioè è coeterno a Dio e da Dio dettato letteralmente al Profeta. Inoltre, per gli sciiti, accanto a Maometto c’è – con un ruolo particolare – ‘Ali, l’amico di Allah, cioè l’imam, colui che conosce la segreta essenza dell’Islam (conoscenza che da ‘Ali passa ai suoi discendenti). Solo l’imam ha l’autorità per interpretare il Corano e la sunna (la «tradizione»). È proprio sul valore attribuito alla figura dell’imam che lo sciismo viene suddiviso in moderato, medio ed estremo: per il primo l’imam è quasi un dio, per il secondo è infallibile, per il terzo è rettamente guidato. Imamiti, ismailiti e zayditi Lo sciismo medio, noto anche come imamita e duodecimano, ritiene che l’ultimo imam (il 12°) sia scomparso nel 9° secolo: sulla Terra egli è ora in ghayba «occultamento», ma tornerà a essere visibile alla fine del mondo facendo trionfare la giustizia. Lo sciismo imamita ha il maggiore numero di seguaci in Iran, Iraq, Afghanistan, India e Siria. Gli appartenenti allo sciismo estremo sono gli ismailiti, che al contrario degli imamiti interrompevano la successione al 6° imam, Jafar al-Sadiq (765). All’interno dell’ismailismo si sono prodotte molte diramazioni, alcune delle quali riuscirono a guadagnare il potere (i Fatimidi governarono in Egitto dal 10° al 12° secolo); altre si allontanarono notevolmente dall’Islam come gli assassini, dall’arabo hashishi «colui che fa uso di hashish». Gli ismailiti attuali si discostano totalmente dalle teorie dei loro predecessori, teorizzando una linea di successione che giunge fino al 49° imam (l’Agha Khan), una sorta di incarnazione di Dio in Terra. Il numero degli ismailiti ,cui si aggiungono i drusi, una vera e propria comunità a sé, e i nusairi è esiguo; sono presenti in India, Siria e Libano. Lo sciismo moderato corrisponde agli zayditi, che non si differenziano molto dai sunniti e sono concentrati per lo più nello Yemen, dove la loro confessione è la religione ufficiale. Torniamo ai curdi, che scopriremo essere molto collegati anche a questi temi lessicali. Non ebbero mai uno stato, ma furono assoggettati da tutti gli imperi: abbiamo già visto , prima di tutti quello persiano poi arabo, mongolo e poi ancora turco e ottomano, tutti, in modo incredibile, conquistarono la regione. Possibile? Mai questo popolo nel corso della sua storia è riuscito ad essere indipendente. Le ragioni sono molteplici, proviamo a pensare perchè. Motivi geografici : questi vanno sempre messi la primo posto, se intorno a te qualcuno vuole che tu non esista ce la fa a non farti esistere. Se la tua inesistenza istituzionale giova ad uno, due tre altri stati sei fuori dal gioco. Pensiamo alla guerra di indipendenza in Italia, al Risorgimento, Cavour e le sue capacità diplomatiche. Noi ci siamo conquistati la libertà combattendo, facendo valere il nostro amor di patria. Noi si e i curdi no? Come mai? L’ esistenza del nostro paese fu garantita da ideali, valori, forze, militari e soldati valorosi. Alla fine gli equlibri geopolitici furono dalla nostra, i soldi pure e cosi siamo divenuti nel 1861 uniti in uno Stato. Ma i curdi no. Nel XIX secolo, in concomitanza con il declino dell’impero ottomano e con la diffusione dei nazionalismi, i curdi iniziarono a rivendicare la propria autonomia. Ci riprovarono a cercare di conquistarsi un loro spazio nel mondo, senza mai riuscirci. Arrivata la prima guerra mondiale si sollevarono di nuovo , contro i turchi. Nonostante il trattato di Sèvres datato 1920 destino tragico, Sevres è una città della Francia. Allora riflettere sui fatti di Parigi del 13 novembre 2015 , ora, alla luce della storia risulta o no più semlice? Questo accordo venne firmato il 10 agosto 1920 tra gli Stati dell'Intesa e la Turchia che aveva partecipato alla prima guerra mondiale a fianco degli Imperi Centrali. Le clausole territoriali del trattato furono durissime e sottraevano all'ex impero ottomano circa quattro quinti del suo territorio. Questo non va bene. In Europa si riduceva a Costantinopoli e alla penisola di Gallipol, gli Stretti passavano sotto il controllo di una commissione internazionale ed erano dichiarati “aperti” anche in tempo di guerra; Siria, Palestina, Arabia ed Egitto erano sottratti alla sua sovranità. Ma non era finita: l'Armenia diveniva indipendente, il futuro della regione di Smirne era subordinato a plebiscito. Era infine ripristinato il regime delle capitolazioni. Il lat. capitulum "capitolo" al plurale valse a designare ogni testo distinto in capoversi, come i trattati; da esso si formò il verbo capitulare "patteggiare", applicato poi specialmente ai patti di resa di corpi di esercito, fortezze, città. Il nome di capitolazioni, dopo aver designato qualsiasi trattato, rimase in uso, nel linguaggio diplomatico, per indicare l'insieme dei privilegi che gli stati non appartenenti al "concerto europeo" (Turchia, stati barbareschi e musulmani, e dell'Estremo Oriente) accordarono agli Europei stabilitisi e trafficanti sul loro territorio. Questi stati vennero chiamati "paesi di capitolazioni". Interessante notare che oggi il linguaggio si è modificato, i termini capitolazioni sono spariti ma nulla è cambiato. I privilegi concessi consistevano nella sostituzione della giurisdizione dei consoli esteri, nei confronti dei proprî connazionali, alla giurisdizione delle autorità indigene. Sotto il termine usuale di giurisdizione consolare s'intendono comprese, oltre le attribuzioni del potere giudiziario vero e proprio, altre di spettanza del potere esecutivo (come p. es. quelle di polizia). Sicché nel campo dei rapporti internazionali si parla di regime capitolare, in contrapposto a regime di diritto internazionale, per indicare la particolare situazione giuridica internazionale di tali stati, in ciò che più significativamente li differenzia dalla situazione internazionale di diritto comune vigente fra stati di civiltà europea o cristiana (e precisamente, secondo il significato che può dirsi ufficialmente consacrato dall'art. 8 del trattato di Berlino 13 luglio 1878, in ciò che concerne les immunités et privilèges des sujets étrangers ainsi que les droits de juridiction et de protection consulaires, tels qu'ils ont été etablis par les capitulations, ecc.). La base del detto regime capitolare è fondamentalmente di natura convenzionale e deriva dalle originarie capitolazioni. Particolare importanza nella storia delle capitolazioni si attribuisce al trattato conchiuso nel febbraio 1535 da Francesco I di Francia col sultano Solimano II, sebbene già fin dalla conquista di Costantinopoli Genovesi e Veneziani fossero entrati in rapporti con la Turchia e con trattati rispettivamente del 1453 e 1454 avessero ottenuto dal sultano Maometto II il formale riconoscimento dei privilegi fin'allora goduti, attraverso le concessioni dell'Impero bizantino, dei principi crociati e, dopo la loro caduta, di califfi e sultani. Ma il grande ascendente politico della Francia e il particolare significato a cui assurgeva - in mezzo all'Europa ancora dominata dall'ideale delle Crociate - il fatto di un'unione politica con l'Impero ottomano, che la Francia conseguiva col suddetto trattato (oltre l'allacciamento di semplici rapporti commerciali), ne giustificano la grande rinomanza. Esso diventò il modello di analoghi trattati stretti dalle altre potenze europee con la Turchia; la prassi e la consuetudine esercitarono di poi un'influenza estensiva sulle disposizioni originarie. Il contenuto costante delle capitolazioni, rimasto in massima lo stesso fino ai nostri tempi, riguarda: a) il diritto dei consoli di esercitare la polizia (potere d'ordinanza e di coazione) sui sudditi del loro stato e perciò anche il diritto di espellerli dal loro distretto; b) il diritto dei consoli di giudicare in materia civile e penale in tutte le liti, in cui le due parti siano sudditi del proprio stato (nelle liti fra sudditi di stati di civiltà cristiana diversi giudica il console del convenuto, o imputato, giusta il principio actor sequitur forum rei; e in quelle fra sudditi d'uno stato cristiano e indigeni, giudica il console, se il suddito del suo stato sia convenuto o imputato, e i magistrati locali con l'assistenza del console, in caso contrario); c) la condizione così detta di extraterritorialità dei consoli, comune a quella degli agenti diplomatici, estesa pure alle loro famiglie e al personale dipendente, insieme con le altre prerogative del diritto di guardia, della libertà di quartiere comprendente, oltre l'alloggio del console, il quartiere della città dove esso e i proprî connazionali si trovano riuniti ad abitare. Fu principalmente il principio della personalità del diritto che contribuì a determinare tali situazioni giuridiche; nei confronti con i Turchi poi, il carattere teocratico (nei suoi presupposti concettuali e sentimentali) delle loro istituzioni politiche e giuridiche concorre a spiegare facilmente come nessun sacrificio potessero costare all'Impero ottomano le concessioni anzidette, che non dovettero essergli in nessun modo strappate - ciò che implicitamente si desume fra l'altro dalla stessa storia delle negoziazioni, oltre che dal grado di potenza mondiale a cui assurgeva allora l'Impero ottomano. La conclusione cui arriva uno dei migliori storici della materia (Pélissié du Rausas) è che il trattato del 1535 generalizzò delle regole di diritto ed estese a tutte le provincie dell'Impero l'applicazione di principî e di usi che erano già da lungo tempo seguiti nella maggior parte dei paesi musulmani; piuttosto che un'eccezione al diritto comune quel trattato ne fu l'applicazione o conferma pura e semplice. Soltanto più tardi si fece strada tale stato d'eccezione e quanto più negli stati di civiltà europea si radicò la sfiducia verso i sistemi di giustizia e di amministrazione degli stati di civiltà diversa, tanto più crebbero in questi - partecipi ormai della concezione tutta europea e moderna della sovranità territoriale - il risentimento per il regime delle capitolazioni (considerato una taccia d'inferiorità) e l'aspirazione a porre le proprie relazioni internazionali con gli altri stati su un piede d'uguaglianza. Il 14° protocollo del trattato di Parigi, 25 marzo 1856, conteneva già la dichiarazione delle potenze che lo stato di cose, cui rispondevano le capitolazioni, avrebbe dovuto cessare pe. opera dello stesso trattato (dal quale la Turchia era ammessa a far parte della società internazionale europea). Paesi di capitolazioni, allo stesso titolo e modo della Turchia, erano i cosiddetti stati barbareschi dell'Africa del Nord e l'Egitto. Nei primi - come negli altri territorî dell'Impero turco che dal trattato di Berlino in poi vennero staccandosi da esso (Serbia, Romania, Bosnia-Erzegovina, Cipro, Bulgaria) - con lo stabilirsi di governi europei il regime delle capitolazioni è venuto a mano a mano cessando (Algeria 1830; Tunisia 1883-84; Libia 1912; Marocco 1913-14; nella zona di Tangeri la rinunzia al regime capitolare da parte dell'Italia è avvenuta con l'accordo di Parigi, 15 luglio 1928); nell'Egitto il regime capitolare fu essenzialmente limitato con l'istituzione dei tribunali misti (regolamento d'organizzazione 16 settembre 1875). Per altri paesi africani l'occupazione o il protettorato di potenze europee ha avuto uguale risultato (Zanzibar, Madagascár, Congo, ecc.); il regime capitolare vige invece tuttora nel maggior stato indipendente dell'Africa, l'Impero etiopico, con l'originaria riserva (come in altri trattati del genere) di "durare fino a quando la legislazione qui non siasi messa d'accordo con le legislazioni europee" (v. trattato d'amicizia e commercio con l'Italia 21 luglio 1906 e trattato 2 agosto 1928). Anche per gli stati non cristiani dell'Asia il regime capitolare - attuato attraverso la generica categoria di trattati di commercio, o di navigazione, di stabilimento e d'amicizia - ha costituito la base esclusiva delle loro relazioni internazionali con gli stati di civiltà europea. Il Giappone (fino al 1854 chiuso agli stranieri) ebbe appunto su tale base le sue prime relazioni (fondamentale per esse il trattato con gli Stati Uniti 31 marzo 1854); ma la sua prodigiosa evoluzione, iniziata nel 1868 e coronata dalla prova di potenza dimostrata nella guerra con la Cina (1894-95), gli acquistò con i nuovi trattati 1894-96 (da entrare in vigore nel 1899) la soppressione della giurisdizione consolare. Restavano invece ancora come paesi di capitolazioni: la Cina, la Persia, il sultanato di Omān (Mascate) e il Siam; nell'Annam e nel Tonchino la Francia, senza opposizione di sorta, aveva già nel 1884 abolita la giurisdizione consolare; così nella Corea aveva fatto il Giappone, dopo l'annessione, col trattato del 22 agosto 1910. Dopo la guerra mondiale, il processo di eliminazione del regime capitolare, dovunque ancora vigesse, è in pieno corso. La Turchia, cui la sua entrata nel novero degli stati costituzionali aveva di bel nuovo, nel 1908, data occasione di rimettere sul tappeto l'abolizione delle capitolazioni (cfr. il trattato con l'Austria 26 febbraio 1909, e il trattato di pace con l'Italia, 18 novembre 1912), il 9 settembre 1914 denunziò unilateralmente le capitolazioni, prima che lo stato di guerra esistesse fra essa e le nazioni alleate nella guerra mondiale. Tale risultato, che l'inefficace trattato di Sèvres, 10 agosto 1920, art. 261, ancora differiva in un futuro più o meno problematico rispetto agli alleati (perché la Germania l'aveva già ammesso nei suoi trattati con la Turchia, 11 gennaio 1917), fu raggiunto con la pace successiva di Losanna, 24 luglio 1923, art. 28 (Les H. P. C. déclarent accepter... l'abolition complète des Capitulations en Turquie à tous les points de vue). La questione dell'abolizione è stata ormai anche aperta nei confronti: della Persia (denuncia 10 maggio 1927 degli antichi trattati e conseguenti nuovi accordi), del Siam (cfr. nuovi trattati, da quello con gli Stati Uniti, 16 dicembre 1920, a quello 6 maggio 1926 con l'Italia, uno dei più recenti) e della Cina (la buona disposizione dell'Italia d'iniziare negoziati, per la revisione del trattato 26 ottobre 1866, fu comunicata al governo nazionalista di Nanchino dalla nota italiana 11 luglio 1928, in risposta all'arbitraria denuncia del suddetto trattato, ed è concretata dall'art. 2 del trattato 27 novembre 1928) - a parte l'abolizione sancita dagli ultimi trattati di pace nei confronti degli stati vinti. ( fonte: Enciclopedia Treccani) Accettato dal sultano Maometto VI e dal governo in carica, il trattato non fu invece riconosciuto dal leader nazionalista turco Muṣṭafā Kemāl Atatürk, che, al termine della guerra di liberazione turca ,1920-1922, ottenne la revisione delle condizioni imposte alla Turchia con il famoso Trattato di Losanna del 24 luglio 1923. Era questo un trattato in omaggio al principio wilsoniano dell’autodeterminazione, prevedesse, con la dissoluzione dell’impero turco, la nascita di uno stato curdo autonomo, dopo la rivoluzione kemalista in Turchia il Kurdistan fu diviso e spartito tra Turchia, Iran, Iraq e Siria (trattato di Losanna, 1923). 24-luglio correva-l'anno1923 FIRMA DEL TRATTATO DI LOSANNA Alla fine della Prima guerra mondiale le potenze vincitrici imposero alla Turchia il trattato di Sèvres. Quel che rimaneva del vecchio impero Ottomano veniva smembrato soprattutto in favore della Grecia. La Turchia di Maometto VI perdeva la Tracia, le isole nel mar Egeo e inoltre Smirne. Venne firmato nel 1920, prima della Conferenza di pace di Londra (1921) e impose ai turchi la rinuncia-a-ogni-pretesa-territoriale. Il trattato di Sèvres divenne la causa della sollevazione di Ataturk. Mustafa Kemal Ataturk, infatti, a capo della fazione nazionalista, si sollevò contro il vecchio sultano, e riunì ad Ankara un’Assemblea nazionale dalla quale uscì il nuovo governo. Il primo provvedimento di Ataturk fu l’abolizione del sultanato e la creazione di uno stato laico. L’esercito appoggiò Ataturk e iniziò una guerra contro i greci che occupavano il nord. Smirne e l’intera Tracia vennero così riunite allo stato turco. Le potenze alleate riconobbero la nuova situazione creatasi in Turchia. Riconobbero il nuovo stato e il impegnarono per una revisione del trattato di Sèvres. Il vecchio trattato prevedeva anche la creazione di uno stato armeno (un tentativo era stato fatto da parte degli armeni già nel 1919 ma si era rivelato un fiasco, anche per il disinteresse delle potenze alleate) indipendente compreso dalle province di Bitlis, Erzurum e Trebisonda, e parte delle provincie di Van. E la Turchia? La Turchia in cambio avrebbe avuto la provincia di Cilicia, ancora sotto occupazione francese. Altri articoli del trattato riconoscevano l’avvenuto genocidio del popolo armeno e affrontavano il problema del ritorno dei profughi. I francesi avrebbero conservato il controllo dell’Anatolia. Con la fine dello stato Ottomano e la nascita dello stato nazionalista di Ataturk le ambizioni degli armeni vennero nuovamente frustrate. Alla Conferenza di Londra del 1921 venne abolito l’articolo 88 del trattato di Sèvres, quello che prevedeva la nascita dello stato armeno, sostituito da un generico "focolare nazionale" nel nord-est della Turchia. A Losanna, il 24 luglio 1923 venne firmato-il-trattato. Vennero stabiliti i confini tra la Grecia, la Bulgaria e la Turchia, l'indipendenza della Repubblica di Turchia, e il rispetto delle minoranze etniche e religiose. Cipro veniva assegnata all'Impero britannico, la Libia e il Dodecaneso all'Italia. La sorte della provincia di Mosul, in terra armena, sarebbe stata decisa dalla Società delle Nazioni. Finito. La Turchia riconosceva, ai sensi degli articoli 37 e 45 del Trattato (III sezione) i diritti dei "sudditi non-musulmani della Turchia", ma non il loro diritto all’autonomia. Per-approfondire: Ennio Di Nolfo, Storia delle Relazioni Internazionali, Bari, Laterza, 2000; Francesco Sìdari , La questione armena nella politica delle grandi potenze dalla chiusura del Congresso di Berlino del 1878 al trattato di Losanna del 1923: dalla chiusura del Congresso di Berlino del 1878 al trattato di Losanna del 1923, CEDAM, 1962; Commissione per la pubblicazione dei documenti diplomatici, I documenti diplomatici italiani, Libreria dello Stato, 1953; Valeria Fiorani Piacentini (a cura di), Turchia e Mediterraneo allargato: democrazia e democrazie, FrancoAngeli,2005; Reinhard Schulze, Il mondo islamico nel XX secolo. Politica e società civile, Feltrinelli 2004. Fonti: Enciclopedia Treccani. LA CERIMONIA DELLA FIRMA DEL TRATTATO DI LOSANNA Solo Per chi ha voglia di leggere ancora altre curiosità..... Nel corso della riunione precedente la firma del Trattato di pace di Losanna con la Turchia, del 24 luglio 1923 , i Delegati francese e britannico alla Conferenza, Pellé e Rumbold, esprimevano parere contrario ad estendere l'invito per la cerimonia a coloro che non fossero Rappresentanti a Berna delle Potenze firmatarie, con l'intento di escludere i Delegati tedesco, Müller, e austriaco, Di Pauli, e, soprattutto, il Nunzio Apostolico, Maglione, a causa di una vertenza che lo aveva opposto all'Ambasciatore francese a Berna, Allizé. A sostegno della loro posizione, Pellé e Rumbold affermavano che essa era condivisa da Allizé e dai Ministri di Gran Bretagna e d'Italia, Sperling e Garbasso, accreditati a Berna. Ma il Delegato italiano alla Conferenza di Losanna, Montagna, riteneva inopportuna tale condotta, e il 21 luglio 1923 telegrafava al Ministro degli Esteri ad interim, Mussolini, per riferire circa il suo intervento a favore del Nunzio Apostolico: «FECI PRESENTE AI COLLEGHI L’ ASSOLUTA INOPPORTUNITÀ TALE DECISIONE SIA PER RAGIONI DI PROTOCOLLO ESSENDO D'USO CHE CORPO DIPLOMATICO AL COMPLETO INTERVENGA CERIMONIE PRESENZIATE DA CAPO DELLO STATO SIA PER RAGIONI SPECIALE DEFERENZA VERSO SANTA SEDE CUI RAPPRESENTANTE PUR NON PARTECIPANDO CONFERENZA NE HA SEGUITO VIGILMENTE LAVORI PER TUTELA INTERESSI RELIGIOSI CATTOLICI ORIENTE. RUMBOLD PUR DICHIARANDO NON RAPPRESENTARE UNA POTENZA CATTOLICA APPOGGIAVA PELLÉ CHE SPINTO DA AMBASCIATORE FRANCIA BERNA SOSTENEVA ENERGICAMENTE SUA TESI. MALGRADO TALE OSTINAZIONE RAPPRESENTANTE FRANCESE DOPO NUOVI EFFICACI SFORZI DI PERSUASIONE SONO RIUSCITO CONVINCERE MIEI COLLEGHI ADOTTARE UNICA PROCEDURA RAGIONEVOLE CIOÈ INVITARE TUTTO CORPO DIPLOMATICO. ESSI HANNO FINITO PER CEDERE SOPRATTUTTO PERCHÉ HO FATTO BEN COMPRENDERE LORO CHE IN CASO CONTRARIO, PUR ADERENDO ALLA DECISIONE PRESA DA ESSI A MAGGIORANZA, AVREI MESSO IN RILIEVO CHE NON CAMBIAVO PER QUESTO MIO PUNTO DI VISTA SPECIE NEI RIGUARDI NUNZIO». (MONTAGNA A MUSSOLINI, LOSANNA, 21 LUGLIO 1923, S.H., ASE, CONF., 61-21) La questione Curda: l’ unico modo per comprendere ogni cosa. A mio giudizio comprendere la questione curda equivale a comprendere ogni aspetto legato alla impossibilità di avere istituzioni pacifiche nelle aree del medio-oriente. E come vagare nel deserto senza una mappa: se ne possiedi una sai dove dirigerti, se hai letto la storia tormento del popolo curdo conosci bene la storia del circuito finanziario di quelle aree e quindi l’impossibilità di avere istituzioni pacifiche, stabili, magari piene di cultura e turismo anzichè piene solo di armi.Bisognerà attendere la cristianizzazione della russia, che avverrà. La questione curda è tuttora drammaticamente irrisolta e si configura come vera e propria tragedia di un popolo ovunque perseguitato, privato dei suoi diritti e costretto a ripetuti esodi di massa. Le continue ribellioni curde furono sistematicamente represse con metodi durissimi. Contro di esse l’Iraq di Saddam Hussein non ha esitato in più occasioni, negli anni Ottanta e Novanta, a impiegare le armi chimiche. Fonte:Copyright © 2015 Zanichelli editore Non è finita, studiare significa avere moltissima pazienza. La Turchia e la ‘sindrome di Sèvres’ . Il 10 agosto del 1920, nella cittadina francese di Sèvres, quella delle famosisssime ceramiche che oggi ricerchiamo con affanno au marchè des puches.... a Parigi, l’Impero ottomano firmava il trattato di pace che definiva i termini dell’accordo tra questo e le potenze vincitrici della Prima Guerra mondiale - Francia, Italia e Regno Unito (alla firma prese parte anche il Giappone). Con il Trattato di Sèvres venivano dunque definiti quelli che sarebbero dovuti essere i nuovi confini della Turchia dopo la caduta dell’Impero ottomano. Le decisioni prese in questo ambito furono molto sfavorevoli al paese, che si vedeva privato di tutti i territori orientali e del controllo sugli Stretti. In particolar modo, i territori a maggioranza armena dell’Anatolia orientale venivano assegnati all’Armenia e, inoltre, si prevedeva la creazione di un Kurdistan indipendente, che includesse anche l’attuale regione sud-orientale della Turchia. L’Italia, la Grecia e la Francia avrebbero inoltre beneficiato di zone di influenza sia sulle coste sud-occidentali del paese, sia a sud, ai confini con la Siria. Il territorio della Turchia veniva così ridotto alla sola penisola anatolica. Le decisioni prese a Sèvres che sarebbero state superate solo grazie alla guerra d’indipendenza guidata da Mustafà Kemal avrebbero lasciato nella nuova classe dirigente turca il ricordo del tentativo di smembramento del paese, perpetuato dalle potenze europee con il sostegno delle nazionalità ad esse affini presenti sul territorio nazionale. Si parla dunque comunemente di ‘sindrome di Sèvres’ per riferirsi a una latente sindrome da accerchiamento che caratterizza la concezione turca della sicurezza nazionale, passibile di essere messa in discussione contemporaneamente dall’esterno e dall’interno del paese Siria. Siria. Compare nella storia con il nome di Aram, poi con la conquista assira del paesi compresi tra il Tigri e il Mediterraneo, dopo il secolo VIII a. C il nome Assyria venne abbreviato in Syria. Assiri e babilonesi quindi ri- compaiono nella storia, nella storia del XXI secolo. Veramente la loro storia non è mai stata cosi vicina alla nostra da decenni, ma pochi europei ne sono consapevoli. Da anni sentiamo di guerre, lotte, le aprole si precano, tensioni, che ormai non hanno più alcun effetto su di noi, tra una pubblicità di un profumo e una di una Audi o un altra di un nuovo telefono cellulare sentire che curdi muoiono è usuale. Che cioccolata, grano,lamiere , gomme delle nostre vetture provengano da quei paesi a noi occidentali non frega nulla .A noi piacciono i romanzi, i film. Come quel racconto vecchiotto del celebre colonnello Thomas Edward Lawrence dal titolo romanzato Lawrence d’ Arabia, poi film kolossal del 1962 diretto da David Lean, vincitore di sette Premi Oscar, tra cui quelli per il miglior film e la miglior regia nel quale siamo rapiti dagli sguardi del bell’ attore irlandese Peter Seamus O'Toole (Connemara, 2 agosto 1932 – Londra, 14 dicembre 2013) , senza tenere in alcun conto che dietro questa storiella dai bei sentimentini ci fu ai tempi del colonnello e c’è tutt’ ora il dominio delle potenze inglesi sempre pronte a guidare le sorti del mondo, ovunque. Il nome imperialismo o colonialismo è sparito dai libri di storia, ma oggi 2015 esiste molto più di prima celato nelle borse merci, nella finanza mondiale, nei prezzi del greggio, nelle multinazionali , allora come oggi, come sempre dominatrici .Ma riprendiamo a leggere la storia. Fondata nel 1946, l’odierna repubblica araba di Siria – confinante a sud con la Giordania e Israele, a est con l’Iraq, a nord con la Turchia e a ovest col Libano e il Mediterraneo – corrisponde solo parzialmente alla “Siria storica”, che nell’antichità inglobava tutta la regione occidentale della “Mezzaluna fertile” e andava dalla parte mediana del bacino dell’Eufrate, da Karkemish a Mari, fino al Mediterraneo, comprendendo così tutta la fascia costiera da Antiochia a Beirut fino a Gerusalemme. Il fondamento dell’attuale ripartizione risale, oltre che alle millenarie differenziazioni etnico-culturali e religiose, soprattutto agli sconvolgimenti politico-territoriali provocati in Medio Oriente dalla caduta dell’impero ottomano e dall’affermazione dell’imperialismo europeo. Le regioni della “Siria storica” furono abitate a partire dal paleolitico inferiore. Sono stati ritrovati resti di numerose culture che si susseguirono nel corso delle civiltà preistoriche del neolitico (nel VII millennio cultura del villaggio a Ugarit e Tell Ramad a sud di Damasco, nel V a Tell Halaf vicino al confine con l’attuale Turchia). Nel terzo millennio comparvero i primi rilevanti centri urbani – Ugarit, Hama, Mari, Ebla – e s’instaurò fra essi una lotta per il predominio regionale, che vide il prevalere della città di Ebla. Tale situazione di competizione fra le varie città stato ebbe termine verso la fine del III millennio con la caduta della Siria sotto l’egemonia degli imperi mesopotamici dei re accadi Sargon e Naram-Sin (a partire dal 2300 a.C.). Nei due millenni che separano tale data dalla conquista di Alessandro Magno (332 a.C.), la Siria conobbe regressi della civilizzazione urbana inframmezzati a un continuo alternarsi tra fasi di semindipendenza – durante le quali riprendeva la lotta tra i suoi maggiori centri (specie nel corso del II millennio) – e l’assoggettamento al dominio dei potenti imperi circostanti. Fu il caso dell’Egitto (a più riprese a partire dal 1800 a.C.), seguito dall’Assiria e, soprattutto, dagli hittiti (dal XVII secolo al XIV), che si spartirono più volte i territori siriani nel corso di un conflitto plurisecolare che ebbe sostanzialmente fine con la sconfitta egiziana di Qadesh nel 1300. Dopo un breve periodo di preminenza della città di Karkemish sotto il protettorato ittita (XIII sec.), la scomparsa di tale impero e le ulteriori invasioni dei popoli del mare (fenici, antichi greci) riaprirono una fase di anarchia e guerra tra le varie città, che si chiuse con l’incorporamento di tutta la Siria nel vasto impero assiro-babilonese (VIII sec.), e quindi in quello persiano, che ne fece una ricca satrapia (VI sec.). Per satrapia si intende ciascuna delle circoscrizioni amministrative (20 in origine) e con funzioni militari, in cui fu diviso l’Impero persiano da Dario I sullo scorcio del VI sec. a.C. Pur con mutamenti territoriali, le satrapie furono conservate sia dopo la conquista dell’Asia da parte di Alessandro Magno (333 a.C.), sia sotto i Seleucidi, gli Arsacidi e i Sasanidi. Nelle satrapie persiane, governate ciascuna da un satrapo, furono frequenti i tentativi autonomistici che portarono talora alla creazione di dinastie ereditarie semi-indipendenti (per es., nella Caria). Nelle satrapie ellenistiche ai satrapi subentrarono come governatori gli strateghi. Dopo la morte di Alessandro Magno prevalse tra i diadochi Seleuco I, col nome di diadochi designavano gli antichi e designiamo noi stessi gli 'immediati successori di Alessandro Magno, contrapposti ai più remoti successori, che si chiamavano e si chiamano epigoni. ..Seleuco I trasformò la Siria nel pilastro centrale di un impero che comprendeva gran parte dell’Asia Minore. Nel periodo ellenistico, sotto la dinastia dei Seleucidi, la Siria ebbe grande sviluppo politico, sociale ed economico, testimoniato anche dalla fondazione di nuove città, da Antiochia a Laodicea alla stessa capitale Seleucia di Pieria. Una nuova svolta fu data dalla conquista romana e dall’elevazione della Siria a provincia effettuata da Pompeo nel 64 a.C. Nell’assetto provinciale, che già la differenziava dalla Fenicia e dalla Palestina a sud-ovest, la Siria visse una nuova fase della sua storia, e fu contesa strenuamente tra romani, persiani e parti a causa della sua posizione strategica lungo le rotte carovaniere tra l’Occidente e l’Oriente indiano e cinese. Dal V secolo d.C. si fece forte la pressione delle tribù arabe nomadi del deserto, contro le quali l’impero romano d’Oriente creò in Siria lo stato cristiano di Ghassan. Dopo un’ultima fugace conquista persiana (614) e la riconquista da parte di Bisanzio (627), la Siria fu occupata definitivamente dagli arabi islamici del califfo Omar: nel 635 cadde Damasco e nel 638 Gerusalemme. Seguì il trasferimento a Damasco della capitale del califfato arabo omayyade (661-750), che portò alla Siria un inusitato splendore e un particolare radicamento dell’elemento etnico-culturale arabo. Tale periodo fu troncato dall’imporsi della nuova dinastia abbaside (750-1258), che spostò il baricentro del califfato nella mesopotamica Baghdad. Con il disfacimento del califfato e le invasioni turche a partire dall’XI secolo, la Siria ritornò a essere contesa tra i diversi poli egemonici dell’islamismo (i Fatimidi dell’Egitto, i turchi selgiuchidi), ai quali si aggiunsero nel XII secolo gli eserciti crociati europei che impiantarono nelle regioni costiere siro-palestinesi domini e regni che durarono fino alla caduta dell’ultimo avamposto, S. Giovanni d’Acri, nel 1291. Sottomessa dai mamelucchi egiziani (1250-1517), via via sottoposta alle incursioni mongole nel Quattrocento, nel 1516 la Siria divenne infine parte dell’impero ottomano e dall’interno di tale compagine politico-amministrativa si trovò a dover affrontare, nell’Ottocento, l’erompere delle contrastanti forze imperialiste europee e nazionaliste arabe. 2. La Siria dalla dominazione ottomana a quella coloniale Il carattere mercantile e intellettualmente più aperto delle città siriane e l’esistenza di un relativo pluriculturalismo, esaltato dalla presenza di forti nuclei cristiani dislocati specialmente nelle terre libanesi, favorirono il risveglio del nazionalismo arabo nella seconda metà dell’Ottocento, sulla scorta degli impulsi provenienti dall’Occidente europeo. Tale tendenza, che confliggeva con la dominazione ottomana, si sposò con gli interessi delle potenze europee, in particolare di Gran Bretagna e Francia, intenzionate a soppiantare i turchi nel quadrante mediorientale e quindi a proteggere le lotte indipendentiste arabe. Tuttavia, le promesse britanniche di futura indipendenza della nazione araba, fatte all’inizio della prima guerra mondiale allo sceriffo della Mecca Hussein – grazie alle quali si poté sviluppare l’impresa di Lawrence d’Arabia – Lawrence d’Arabia: la storia di un ufficiale inglese tra guerra, spionaggio e leggenda. Ufficiale e agente segreto inglese, Thomas Edward Lawrence fu soprannominato Lawrence d’Arabia per le imprese compiute durante la Prima guerra mondiale, quando incitò alla ribellione e guidò le forze di guerriglia arabe in lotta per l’indipendenza dei propri paesi contro l’occupazione turca. Uomo di grande coraggio, diventò un personaggio leggendario, anche grazie all’abilità con cui coltivò il proprio mito. Un archeologo diventato guerrigliero Thomas Edward Lawrence nacque a Tremadoc, nel Galles, nel 1888. Suo padre era un baronetto di una famiglia anglo-irlandese impoverita, la madre una governante. Educato a Oxford, compì studi linguistici e archeologici che, tra il 1909 e il 1914, lo portarono a intraprendere viaggi di studio in Siria, in Palestina e in altre zone mediorientali. Dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale, fu di stanza al Cairo come ufficiale dei servizi segreti britannici con l’incarico di occuparsi dei rapporti con gli Arabi. Ma il suo ruolo crebbe enormemente d’importanza quando, entrato in stretto contatto con il principe arabo Faysal come ufficiale di collegamento, nel 1916 prese a operare con l’incarico di fomentare la rivolta araba contro gli occupanti turchi, alleati con i Tedeschi. Una delle sue maggiori imprese fu il contributo che diede nel maggio 1917 alla conquista di Aqaba, una località di grande importanza strategica, il quale gli valse una promozione. Scoperto dai Turchi nonostante fosse travestito da arabo e arrestato, riuscì a evadere dalla prigione. Nel dicembre 1917 partecipò all’ingresso trionfale delle forze anglo-arabe a Gerusalemme e successivamente alla conquista di Damasco nell’ottobre 1918, che fu la sua ultima azione di rilievo; poco dopo fu congedato con i gradi di tenente-colonnello. Nello svolgere i suoi compiti Lawrence dimostrò quelle qualità di capo guerrigliero che lo consegnarono alla leggenda. Al tempo stesso recitò una parte assai ambigua. Infatti, mentre conquistava la fiducia dei combattenti arabi,i quali ritenevano che gli Inglesi li avrebbero aiutatia conquistare l’indipendenza, li sfruttò seguendo le direttive a lui impartite dai comandi britannici, che avevano invece ben diversi obiettivi. Una vita inquieta Nel dopoguerra Lawrence visse un periodo di inquietudine. Entrato nel servizio diplomatico, fece parte della delegazione britannica alla Conferenza di pace di Parigi, dove assistette con sensi di colpa alla politica messa in atto da Inglesi e Francesi diretta ad asservire ai propri interessi il Medio Oriente e i popoli arabi. Spirito orgoglioso e aristocratico, che si sentiva superiore alla massa comune, ormai Lawrence era un eroe di guerra, ammirato e invidiato, con l’ambizione di far conoscere al grande pubblico l’importanza delle sue imprese. Ritiratosi dal servizio diplomatico, nel 1922 entrò nell’aviazione britannica (la RAF) come semplice aviere, sotto il nome di Ross e, nel 1923, sotto quello di Shaw, nei reparti corazzati. Tornò infine nella RAF fino a quando fu definitivamente congedato nel 1935; poco tempo dopo ebbe un grave incidente motociclistico che lo portò alla morte in quello stesso anno presso Clouds Hill. I sette pilastri della saggezza: la costruzione letteraria del mito . Desideroso di alimentare e diffondere il proprio mito, nel 1919 Lawrence aveva iniziato a stendere le sue memorie di guerra, che vennero pubblicate prima con una tiratura limitata, nel 1926, con il titolo I sette pilastri della saggezza, poi, nel 1927, in forma abbreviata col titolo La rivolta nel deserto. La fama di Lawrence crebbe enormemente dopo la sua morte. Una nuova edizione postuma di I sette pilastri della saggezza (1935) ebbe un grande successo internazionale, che dopo di allora non è venuto meno. Postumo apparve altresì nel 1955 il libro L’aviere Ross, nel quale Lawrence parlava delle sue esperienze nella RAF. Lawrence inoltre tradusse in versi inglesi l’Odissea di Omero. 3. La Siria dall'indipendenza all'acuirsi del fondamentalismo Conseguita la piena indipendenza sotto la presidenza del leader nazionalista Shukri al-Quwwatli nel 1946, la repubblica araba di Siria s’inserì attivamente nella Lega araba e nel conflitto arabo-israeliano, il cui esito negativo comportò una destabilizzazione interna risolta dalla dittatura di Adib al-Shishakli (1951-54). Negli anni Cinquanta la Siria cercò a più riprese di creare rapporti stretti e duraturi con l’Egitto, che nel frattempo aveva portato a termine la rivoluzione nasseriana. Si arrivò così nel 1958 alla realizzazione della federazione tra Siria, Egitto e Yemen del Nord (Repubblica Araba Unita, RAU). Per l’opposizione dei settori moderati antinasseriani e per l’oggettiva subordinazione nella quale si trovò rispetto all’Egitto, il regime siriano baathista decise di abbandonare la federazione nel 1961 e questa fu la premessa per l’instaurazione di una nuova dittatura militare conservatrice sotto il generale Amin al-Hafiz (1963-66). Dopo la nuova sconfitta contro gli israeliani nella guerra dei Sei giorni (1967) e la perdita del Golan, prevalse nel Baath la corrente radicale che patrocinò l’avvicinamento all’Unione Sovietica (furono firmati vari patti di collaborazione, tra cui, l’ultimo, il trattato ventennale di amicizia del 1980) e l’avvento al potere prima del generale al-Atasi, poi del collega Hafiz al-Assad (1970), capo dello stato siriano fino al giugno 2000, in un contesto politico rigidamente dirigistico. Nel 1973 la guerra vittoriosa contro Israele, combattuta a fianco dell’Egitto, permise alla Siria la riassunzione di un ruolo egemone sia nella questione palestinese, sia in quella libanese. Dopo la stipulazione dei patti di Camp David (1978) e la normalizzazione dei rapporti tra Egitto e Israele, Assad assunse, con la Libia e l’Iraq, l’alto patrocinio della causa palestinese emblematizzata nel “Fronte del rifiuto”. Tuttavia, negli anni Ottanta, con l’acuirsi del rischio rappresentato per la stabilità interna dal fondamentalismo islamico esaltato dalla creazione del regime khomeinista in Iran e dal conflitto tra quest’ultimo e l’Iraq (1980-88), la Siria, pur mantenendo una posizione intransigente sulla Palestina (nel 1983 Arafat fu espulso da Damasco) e di “grande protettore” del Libano, preferì spostarsi-su-posizioni complessivamente meno radicali. Tale tendenza fu corroborata dalla trasformazione interna e poi dalla caduta del regime sovietico. Nel 1990 la Siria aderì alla coalizione di forze ostili al colpo di mano del dittatore iracheno Saddam Hussein in Kuwait e, dopo la sconfitta irachena del febbraio 1991, contribuì, almeno relativamente, alla distensione arabo-israeliana. Trattative con Israele furono avviate nel 1994 in vista di una normalizzazione delle relazioni, con la richiesta della restituzione da parte israeliana delle Alture di Golan, ma esse vennero interrotte nel 1995 dopo la ripresa delle attività militari a opera dei gruppi islamici di Hamas. Un miglioramento dei rapporti con la Turchia, che erano peggiorati per l’aiuto fornito dai siriani ai curdi, fu conseguito nel 1998. Le elezioni di quell’anno videro la netta prevalenza del Fronte progressista nazionale di Assad, rieletto presidente agli inizi del 1999. 4. La Siria del nuovo millennio Un successo per la Siria e per gli Hezbollah da lei protetti fu il ritiro dal Libano meridionale. Hezbollah Movimento e partito fondamentalista islamico sciita («Partito di Dio»). Nato in Libano dopo l’invasione israeliana (1982), filoiraniano e appoggiato dalla Siria, si rese responsabile di numerose e cruente azioni terroristiche. Il suo radicamento nella società proseguì anche dopo il ritiro dalla fascia di sicurezza di Israele (2000), con cui continuò a scontrarsi nelle zone di confine. Dopo aver conquistato 14 seggi al Parlamento nelle elezioni legislative del 2005, quasi tutti ottenuti nel Sud del paese, dove ha costituito una sorta di Stato nello Stato, H. entrò al governo. Ritornato all’opposizione, nell’estate 2006 fu protagonista del conflitto con Israele. Nel 2008, la decisione di H. di reagire in armi alla decisione del premier F. Siniora di smantellare le linee di telecomunicazione dell’organizzazione, portò il Libano sull’orlo di un’altra guerra civile, evitata dopo trattative mediate dalla Lega Araba, con la formazione di un governo di unità nazionale e la concessione a H. del potere di veto. Nelle elezioni del 2009 la coalizione guidata da H. è stata sconfitta dalla coalizione filooccidentale 14 settembre. ale delle forze israeliane. L’ingerenza siriana in Libano divenne tuttavia oggetto di aspre critiche soprattutto all’indomani dell’assassinio dell’ex primo ministro Rafiq al-Hariri (2005). Sul piano interno, alla morte di Hafiz al Assad nel giugno 2000, il potere passò nelle mani del figlio Bashar, la cui nomina fu sancita da un referendum nel luglio dello stesso anno. Nonostante le forti aspettative inizialmente suscitate, il cambio al vertice non determinò l’inizio di una nuova stagione politica per il paese. Nelle elezioni del 2007, boicottate dalle opposizioni, Bashar al Assad ottenne quasi il 100% dei consensi e fu quindi riconfermato-al-potere. Nel marzo 2011, nel quadro delle grandi manifestazioni di massa che scossero l’intera regione nordafricana e mediorientale, il regime di Assad fu oggetto di crescenti critiche. Nonostante la dura risposta delle forze di polizia, che causò centinaia di vittime, le proteste continuarono e portarono alle dimissioni del gabinetto. Denunciando le proteste quale risultato di un complotto straniero, Assad respinse ogni ipotesi di riforma e, a dispetto delle condanne dell’opinione pubblica internazionale, scatenò una violenta repressione cui si accompagnarono alcune moderate concessioni alla minoranza curda e agli islamisti conservatori. Reagendo alle crescenti pressioni internazionali, Assad nominò un nuovo gabinetto e sospese lo stato d’emergenza, ma continuarono le violenze nei confronti degli oppositori del regime. In risposta Stati Uniti e Unione europea imposero l’embargo e la Turchia condannò ufficialmente, per voce del premier Erdogan, il regime siriano, accrescendone ulteriormente l’isolamento internazionale. Dopo il veto opposto da Cina e Russia all’ipotesi di un intervento militare, nel novembre 2011 il governo di Damasco accettò un progetto di pace avanzato dalla Lega Araba, che tuttavia rimase lettera morta. Nel frattempo, a fronte di un’ulteriore recrudescenza degli scontri ormai degenerati in una vera e propria guerra civile, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU incaricò l’ex segretario generale Kofi Annan di preparare un nuovo progetto di pace, destinato tuttavia anche questo a fallire. Sul finire del 2012 i leader dell’opposizione annunciarono la formazione di una nuova coalizione, la Coalizione nazionale delle forze siriane rivoluzionarie, che ricevette ben presto riconoscimento internazionale. FONTE: WWW. SAPERE.IT 8 Gennaio 2015: Je suis Charlie: rimbalza in tutte le lingue, sui social network, sulle testate dei giornali, sui cartelli delle migliaia di persone scese per strada a Parigi. Tre parole che sono una presa di posizione, una dichiarazione di solidarietà per la strage avvenuta nella redazione del giornale satirico Charlie Hebdo, ma anche un’affermazione di vitalità, contro chi pensa di poter spegnere la satira a colpi di mitra: ci sono migliaia di Charlie, tutt’altro che rassegnati a rinunciare alla libertà di sorridere. Il bilancio della giornata è pesantissimo, 12 vittime, 8 persone della redazione, un ospite, 2 agenti, il portiere dello stabile. I killer hanno scelto con cura il momento dell’assalto, il mercoledì mattina, giornata in cui si teneva di solito la riunione settimanale di programmazione, per essere sicuri di cogliere insieme tutti gli obiettivi e cercare di annientare un giornale acuto e irriverente (“giornale irresponsabile” è il sottotitolo della testata), che si è guadagnato nel tempo il ruolo di simbolo della libertà di espressione, irridendo ogni conformismo, prendendo di mira equamente istituzioni e personaggi politici sui diversi fronti, istituzioni culturali e religiose di tutte le confessioni, senza risparmiare a nessuno ironia e battute fulminanti. Nato nel 1970 dalle ‘ceneri’ di Hara-Kiri - giornale satirico incorso in diverse disavventure, censurato più volte fino al blocco delle pubblicazioni per una vignetta sulla morte di De Gaulle -, Charlie Hebdo si era avvalso dello stesso gruppo redazionale, mantenendo lo stile corrosivo, la propensione allo sberleffo intelligente, la capacità di cogliere punti deboli e contraddizioni, a destra come a sinistra. Nel 2006 era salito alla ribalta delle cronache per aver ripubblicato le 12 vignette su Maometto apparse sul giornale danese Jyllands-Posten, scelta che costò diverse minacce, messe in pratica poi nel 2011 con un attentato incendiario contro la redazione, a seguito della pubblicazione di un numero speciale dedicato agli islamisti in Tunisia. Il direttore - il disegnatore Stephane Charbonnier, noto come ‘Charb’, morto nell’assalto al giornale - che pure era sotto protezione per le minacce ricevute, aveva di recente dichiarato di trovare preferibile morire in piedi che vivere in ginocchio, senza perdere il gusto per la battuta: la sua ultima vignetta, che suona tetramente profetica, mostra al-Baghdadi, il califfo dell'IS, che risponde all’affermazione ”Ancora niente attentati in Francia” con un gentile “Aspettate, abbiamo ancora tutto gennaio per farvi i nostri auguri”. A chi lo accusava di prendersela troppo con gli islamici rispondeva semplicemente che il suo giornale si occupava di attualità e quello era uno degli argomenti più attuali, ma non certo l’unico preso di mira dal giornale. Insieme a lui è morto Georges Wolinski, 80 anni, molto conosciuto anche in Italia per la sua collaborazione con Linus, noto per il suo umorismo tagliente e ‘politicamente scorretto’, autore di fumetti e vignette in cui intrecciava con disinvoltura erotismo e politica. E ancora altri disegnatori Jean Cabut, ‘Cabu’, anche lui tra gli storici fondatori di Hara-Kiri, Bernard Verlhac, detto ‘Tignous’, Philippe Honoré, e l’economista e scrittore Bernard Maris. Omicidi compiuti al grido di ‘Allah akbar’ (letteralmente ‘Dio è il più grande’), la formula rituale con la quale il muezzin inizia il quotidiano invito ai fedeli alle cinque preghiere della giornata, stravolta e snaturata fino a farne un insensato slogan guerresco. Il numero di Charlie Hebdo in uscita proprio ieri era dedicato all’ultimo controverso romanzo di Michel Houellebecq, Sottomissione, già al centro di numerose polemiche nel dibattito culturale francese. Il libro prefigura una Francia in cui l’Islam ha preso pacificamente il potere, imponendosi su una civiltà ormai esausta e spossata, in cui l’illuminismo e la lunga e ricca tradizione culturale sono ormai tramontati, aprendo la via a una blanda acquiescenza. Quanto è accaduto non potrà che rinfocolare le polemiche, riaccendere le accuse, mentre sarà opportuno ora più che mai mantenere il senso delle proporzioni e non lasciare che una rabbia fine a sé stessa offuschi la vista. Il 13 novembre 2015 è la guerra: alle ore 21.20 una serie sanguinosa di attacchi terroristici sistematici, sette in tutto, altamente cruenti venne sferrata a PARIGI, attacco che vide l’ immediata e corale risposta di tutta Europa che si uni idealmente ai fratelli francesi: negli attacchi considerati dal popolo francese ed europero un vero e proprio atto di guerra, morirono 136 persone, allo stato attuale forse mancano altri dati certi in quanto 90 sono i feriti e sono tutti iniziati fra le 21.20 e le 22. Il più grave, quello al locale Bataclan,il cui proprietario è ebreo, è andato avanti fino a mezzanotte e venti, quando è stato interrotto da un raid della polizia: al momento le persone morte nell’attacco al Bataclan sono 89. Ma ci sono state sparatorie ed esplosioni anche in diversi altri posti della città, compreso lo Stade de France in cui si stava giocando Francia-Germania. In tutto i morti sono oggi 129, ma ci sono 99 feriti in gravi condizioni. – Cos’è il Bataclan È uno storico locale di Parigi, una sala usata per concerti e spettacoli: si trova al numero 50 di Bd Voltaire, nell’XI arrondissement, un quartiere nel centro della città. Il nome del locale è ispirato all’opera Ba-ta-clan di Jacques Offenbach, che aveva un’ambientazione cinese ed è stata rappresentata per la prima volta nel 1855. Il locale è stato attaccato mentre era in corso un concerto della band californiana Eagles of Death Metal. Tutto il mondo si sente come in Isralele, minacciato, sotto attacco di un nemico invisibile Kamikasesizzato. Un folle che abusa di sostanze dopanti e droghe, suicidomicida. Un terribile video girato da un giornalista di Le Monde sopra un’uscita secondaria del Bataclan e visto dal mondo intero, è una guerra senza precedenti paragonabile solo all’ abbattimento delle torri gemelle. E po il terreno dello Stade de France invaso dagli spettatori e le foto scattate dalle agenzie fotografiche sui luoghi degli attentati, venerdì sera. Cos’è successo allo Stade de France Un racconto cronologico e per immagini degli attacchi allo stadio dove si stava giocando un’amichevole di calcio fra Francia e Germania. Gli attacchi hanno creato una situazione surreale: durante la partita gli allenatori delle due squadre sono stati informati delle notizie iniziali di violenze ma hanno scelto di non dire niente alle proprie squadre. Una decisione simile è stata presa dal presidente francese Hollande, che ha scelto di non avvertire gli spettatori temendo che ci fossero altri miliziani vicino allo stadio e per evitare che si creasse il panico e la conseguente calca: molti di loro hanno saputo cosa stava succedendo in città solamente verso la fine della partita. A partire dalle 21:20 circa una serie di attacchi terroristici coordinati ha coinvolto la zona intorno allo Stade de France (mentre si stava disputando l'amichevole calcistica tra Francia e Germania), Boulevard de Charonne, Boulevard Voltaire, Rue Alibert, Rue de la Fontaine au Roi e il teatro Bataclan. Gli autori, otto terroristi, hanno usato fucili mitragliatori, granate ed esplosivi; tre di loro si sono fatti esplodere con cinture esplosive dopo aver finito le munizioni, gli altri sono rimasti uccisi dalla polizia. Le prime sparatorie sono state segnalate tra rue Bichat e rue Alibert intorno alle 21:20 vicino al Canal Saint-Martin. Gli stessi terroristi hanno attaccato successivamente un ristorante uccidendo undici persone, per poi fuggire in automobile. Poco dopo una sparatoria si è verificata nella terrazza (intesa come spazio esterno coi tavolini) di una pizzeria italiana, La Casa Nostra, su rue de la Fontaine au Roi, a sud di rue Bichat. Contemporaneamente tre esplosioni, di cui due ad opera di kamikaze, sono avvenute all'esterno dello Stade de France venti minuti dopo l'inizio dell'amichevole di calcio Francia-Germania a cui stava assistendo anche il presidente Hollande. La partita si è conclusa regolarmente, mentre il presidente ha incontrato il ministro dell'Interno Bernard Cazeneuve in una riunione d'emergenza. Alle 21:50 circa una nuova sparatoria è scoppiata all'esterno di un ristorante sulla rue de Charonne ad opera di due terroristi che sono fuggiti poi in automobile. Nel frattempo, prima delle 22:00, quattro terroristi hanno aperto il fuoco e hanno lanciato granate all'interno del Bataclan, teatro dove si teneva un concerto del gruppo musicale statunitense Eagles of Death Metal a cui assistevano circa 1 500 persone. Dopo aver assassinato diversi spettatori i terroristi hanno radunato un gruppo di ostaggi mentre nel frattempo accorrevano le forze speciali, entrate in azione dopo la mezzanotte. Tre terroristi si sono fatti esplodere, mentre il quarto è stato ucciso prima che potesse azionare la cintura esplosiva. Mentre avveniva il blitz, un quinto terrorista si è fatto esplodere all'esterno, nella vicina Boulevard Voltaire.[9] "Peace for Paris", Pace per Parigi, un logo creato da Jean Jullien e subito divenuto virale sui social network CRONOLOGIA DEGLI EVENTI Le Monde ha pubblicato la seguente cronologia degli eventi:[10] • 21:16 - 1ª esplosione nei pressi dell'ingresso D dello Stade de France, in zona Saint-Denis; • 21:25 - 1ª sparatoria nei pressi del ristorante Le Petit Cambodge, su Rue Bichat, e del ristorante Le Carillon, su Rue Alibert (13 morti); • 21:30 - 2ª esplosione nei pressi dell'ingresso H dello Stade de France, in zona Saint-Denis; • 21:32 - 3ª esplosione nei pressi del ristorante Casa Nostra[11][12], su Rue de la Fontaine au Roi (5 morti); • 21:43 - 4ª esplosione, 1 terrorista si fa esplodere nei pressi del teatro Bataclan, su Boulevard Voltaire; • 21:48 - 2ª sparatoria, 1 terrorista spara verso l'esterno del locale La Belle Équipe, all'incrocio tra rue Faidherbe e rue de Charonne (19 morti); • 21:49 - irruzione con presa d'ostaggi di 4 terroristi nel teatro Bataclan, su Boulevard Voltaire (80 morti); • 21:53 - 5ª esplosione a circa 400 metri dello Stade de France, in zona Saint-Denis; • 0:20 - blitz delle forze speciali di polizia al teatro Bataclan, su Boulevard Voltair Vittime per nazionalità Nazionalità Morti Feriti Ref. Francia * 101+ 387+ Belgio * 3 Cile 3 Portogallo * 2 4 Algeria 2 [16] Messico * 2 1 [14] Romania 2 2 [17][18] Egitto * 2 1 [19] Senegal 2 [20] Tunisia 2 1 [20] Germania 2 ? [21][22] Italia 1 2 [23][24] Marocco 1 1 Spagna 1 [25] Svezia 1 1 [26] Stati Uniti * 1 [20] Regno Unito 1 [14] Turchia 1 ? [27][28] Serbia 14 [29] Paesi Bassi 3 Venezuela 3 [30] Brasile 2 Australia 1 [31] Austria 1 [32] Canada 1 [33] Cina 1 [34] Colombia 1 [35] Irlanda 1 [36] Total 129 433 [26] * Alcune vittime hanno doppia nazionalità. I conti sono stati calcolati su dati provvisori e potrebbero essere incompleti. Durante gli attacchi perirono 129 persone, mentre i feriti ammontarono a 433,[ di cui 80 portati all'ospedale in gravi condizioni. Delle vittime, 89 morirono al teatro Bataclan, 15 al Le Carillon e alla Le Petit Cambodge, 5 al Café Bonne Bière e a La Casa Nostra, 1 allo Stade de France e 19 a La Belle Équipe. Furono confermati morti appartenenti a 26 diversi Paesi (alcuni con nazionalità multipla). Les Inrockuptibles ha annunciato che il suo critico musicale, Guillaume B. Decherf, è stato ammazzato al Bataclan. Un dirigente di Mercury Records France e il direttore del merchandise degli Eagles of Death Metal erano anch'essi tra le vittime dei terroristi islamici. SVILUPPI GIUDIZIARI – Cosa sappiamo sugli attentatori Il procuratore di Parigi François Molins ha detto che gli attacchi sono stati compiuti da tre gruppi di terroristi, formati in tutto da almeno sette persone (ma potrebbero essere di più: domenica Associated Press per esempio parlava di 19 attentatori, secondo le proprie fonti). Tre di loro hanno formato il primo gruppo che ha attaccato lo Stade de France, altri tre hanno attaccato il Bataclan e un settimo si è fatto esplodere all’interno di un ristorante in una zona centrale di Parigi. Le notizie su questo fronte sono comunque molto fluide, in mattinata ne sono stati identificati altri due: per essere aggiornati è bene seguire il liveblog del Post. Stando alle ultime ricostruzioni della stampa francese, le indagini si stanno concentrando su tre fratelli francesi che vivevano in Belgio, dove sembra sia stato organizzato l’attentato. Uno dei tre fratelli – che sarebbe l’ottavo sospettato degli attentati di Parigi, ma la polizia non ha specificato il suo livello di coinvolgimento nella strage – è ancora in fuga: le sue generalità e una sua fotografia sono state diffuse dalla polizia francese domenica pomeriggio. Si chiama Salah Abdeslam, nato a Bruxelles, in Belgio, il 15 settembre 1989. – Un attimo: cosa c’entra il Belgio? Negli ultimi anni il Belgio è diventato uno dei paesi europei in cui l’attività islamista radicale è più forte. Diversi giornali si stanno occupando in particolare del comune belga di Molenbeek-Saint-Jean, nella regione di Bruxelles, indicato come una delle basi europee del terrorismo islamista. Gli arresti di sabato sera in diretta connessione con gli attentati di Parigi hanno rafforzato questa ipotesi: «L’elenco delle persone che hanno transitato per Molenbeek, prima di essere coinvolte in attività terroristiche è impressionante», scrive Le Monde. – Con Parigi l’ISIS ha cambiato strategia? Fino a oggi, la maggior parte degli esperti era d’accordo nel dire che la priorità dell’ISIS – il suo obiettivo strategico – era quella di creare un Califfato islamico su cui governare: compiere attentati terroristici in Occidente era visto più che altro come uno strumento efficace per il reclutamento di nuovi miliziani e un modo per entrare in competizione con al Qaida per la supremazia del mondo jihadista. Dopo gli attentati di Parigi – i primi che l’ISIS compie in Occidente con una tale estensione, organizzazione ed efficacia – non tutti la pensano più così: una guida per capirci qualcosa. L'ospedale Saint Louis si trova a pochi minuti di distanza dalle aree attaccate, il locale Carillon, il Bataclan e La Belle Equipe. "Senza nessuna esitazione, ci siamo presentati tutti in ospedale. Quando ho visto quella scena, l'ho trovata bellissima. Ho scattato la foto e mentre tornavo a casa ho pensato che mi sarei pentito a non condividerla con qualcuno", ha raccontato il dottor Pashootan al TIME. "Non credevo che sarebbe diventata virale", ha spiegato sottolineando lo stupore che ha provato, invece, nel vedere le molteplici condivisioni sui social network. "È una foto che parla da sola, non ha bisogno di didascalie. Non ci sono molte foto di questo tipo. Mostra un'intera squadra di professionisti mobilitati e pronti ad affrontare il lato peggiore degli eventi". Il caos, la disperazione, la confusione e, nello stesso tempo, il coraggio, la prontezza di riflessi, il senso del dovere: è questo il mix che traspare dall'immagine. "Non è il tipo di scena che siamo abituati a vedere - ha aggiunto -. Sembrava la guerra". Ma non solo il personale del Saint Louis ha vissuto l'incubo: anche gli altri ospedali della città e dintorni si sono messi in moto. Un'infermiera in servizio in uno di questi ha dato vita ad un "Ask me Anything" su Reddit, un botta e risposta sul social network per aiutare gli utenti a capire meglio lo svolgimento dei fatti di quella notte, secondo il suo punto di vista. Ha spiegato che la struttura ha ricevuto più del doppio dei pazienti che riceve normalmente in una notte e che "la mole sarebbe stata insostenibile se lo staff non fosse accorso dalle proprie case". Un uomo riempito di pallottole e tantissimi pazienti apparentemente calmi a causa dello shock: sono queste le immagini ancora vive nella mente dell'infermiera. Nonostante la tragedia, la donna dice che il team non si è fatto prendere dal panico e ha rispettato l'ordine di gravità delle ferite. Ma non ha dubbi: "Il ricordo e il trauma di quella notte mi accompagneranno per tutta la vita". Dopo l’ attacco a Parigi un secondo pesantissimo attacco terroristico sconvolge il Mali, Il Mali è la Francia, ancora una volta l’ obiettivo è lei la Francia. Sembra quasi che la chiave di lettura sia obbligare l’ Occidente a capire qualcosa, che mai sarà comprensibilemnte capibile fno in fondo. Il sangue non può aiutare nessuno a capire, il sangue insanguina.Ma cosa è successo in Mali? Il Mali. Dopo la Francia, il terrore ha colpito il Mali. Un attacco jihadista è stato sferrato all'hotel Radisson Blue della capitale Bamako: un commando con una dozzina di terroristi con armi da fuoco e granate ha gridato "Allah u Akbar!", Dio è grande, quando hanno aperto il fuoco. Poi hanno preso almeno 170 persone in ostaggio (140 ospiti e 30 persone dello staff). Ventuno persone, inclusi due jihadisti, sono stati uccise nell'attacco all'hotel, ha annunciato il presidente Ibrahim Boubacar Keita, che ha ordinato lo stato di emergenza nazionale per 10 giorni scattato a mezzanotte, mentre il lutto nazionale di tre giorni, con bandiere a mezz'asta, dovrebbe iniziare lunedi. In un primo momento la tv statale maliana aveva parlato di 27 vittime: secodno un funzionario Onu 12 corpi erano stati trovati nel piano interrato dell'hotel e altri 15 al secondo piano. Allo stesso tempo, il portavoce della missione Onu in Mali, Olivier Salgado, aveva detto che due estremisti sono stati uccisi. Gli ostaggi sono stati liberati dalle forze di polizia dopo un lungo blitz. Tra questi sono stati liberati i 12 membri dell'equipaggio dell'Air France e 5 dei sei ostaggi della Turkish Airlines che erano stati trattenuti nell'albergo. Nessun francese è rimasto ucciso nell'attacco all'hotel Radisson a Bamako, ha annunciato il ministro della Difesa francese Jean-Yves Le Drien. "Questa barbarie rinforza solo la nostra determinazione a far fronte a questa sfida", ha detto venerdi' sera il presidente americano Barack Obama, riporta il Washington Post. Gli Stati Uniti ed i suoi alleati "non permetteranno a questi assassini di avere un rifugio sicuro", ha aggiunto Obama durante un discorso al summit delle nazioni del sudest asiatico a Kuala Lampur, in Malesia. Dietro l'attacco all'hotel Radisson di Bamako potrebbe esserci Mokhtar Belmokhtar, ex comandante di Al Qaida in Maghreb, ha detto ancora il ministro. In serata su Twitter la direttrice del Site, Rita Katz, ha scritto che il gruppo terroristico Al Qaida per il Maghreb islamico lo scorso 29 ottobre diffuse un messaggio audio di uno dei leader dei jihadisti di Ansar Dine che lanciava un appello ad attaccare "gli interessi francesi in Mali" e a "respingere l'accordo di pace e riconciliazione" nel paese africano. "Ho visto dei cadaveri. E' orribile". Sono le prime parole di uno degli ostaggi liberati. Anche un "popolare cantante guineano", Sekouba Bambino, è fra gli ostaggi liberati. "Mi sono svegliato al suono di colpi d'arma da fuoco e pensavo fossero solo banditelli venuti all'hotel per cercare qualcosa. Dopo 20 o 30 minuti ho capito che non erano piccoli criminali", ha detto l'artista secondo quanto riferisce la Bbc Fonte: Ansa. L'attacco è avvenuto al settimo piano della struttura dove , secondo il quotidiano francese Liberation - "si trovano le camere utilizzate dal personale di volo dell'Air France". I diplomatici del Quai d'Orsay a Parigi hanno attivato una cellula d'emergenza. "Ancora una volta i terroristi hanno voluto segnare la loro presenza barbara, in luoghi dove possono uccidere e impressionare. Dobbiamo dimostrare la nostra solidarietà al Mali, un Paese amico", ha detto il presidente francese François Hollande che ha anche invitato i francesi a Bamako a raggiungere l'ambasciata e a mettersi al sicuro. Anche l'Unità di crisi della Farnesina si è subito attivata. Sono 15 i militari italiani presenti in Mali, nell'ambito di tre diverse missioni internazionali: nessuno è rimasto coinvolto nell'attacco terroristico. Gentiloni: 'Nessuno italiano coinvolto'. L'ambasciata Usa ha diramato un allerta in cui chiede ai cittadini americani di mettersi al sicuro. Il presidente francese Francois Hollande aveva sottolineato che l'Isis considera la Francia nemica perchè Parigi è intervenuta in Mali. In un discorso pubblico, il presidente aveva ricordato che nel 2013 la Francia ha aiutato il Mali, ottenendo una "vittoria": i "terroristi lo sanno per questo ci considerano nemici". "I terroristi nel 2012 si sono accaniti contro la cultura del Mali", "imposto divieti, le donne sono state sottomesse": "la Francia ha dovuto prendersi le sue responsabilità e portare avanti azioni importanti". RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA Una grande cerimonia di omaggio alle vittime degli attentati del 13 novembre a Parigi si terrà il 27 novembre nel complesso degli Invalides, alla presenza del presidente francese Franois Hollande che pronuncerà un discorso solenne. E resta altissima la tensione in Francia. E dopo la conferma dell'uccisione della "mente" degli attentati di venerdì 13 si susseguono i blitz della polizia contro i terroristi. Un vasto blitz di polizia c'è stato a Charleville, nelle Ardenne francesi. Nel raid è stata udita una forte esplosione. Il quartiere della Ronde-Couture di Charleville-Mezières - cittadina operaia non lontana dal confine con il Belgio - è stato chiuso al traffico. E' stato arrestato un uomo di nazionalità francese, convertitosi all'Islam di recente. "Crivellato di colpi", il corpo di Abdelhamid Abaaoud è stato ritrovato fra le macerie dell'appartamento di Saint Denis devastato da uno scontro a fuoco durato sei ore. Il cadavere della presunta "mente" degli attentati è stato formalmente riconosciuto grazie alla comparazione delle tracce di campioni di DNA. E Abaaoud è probabilmente coinvolto in almeno quattro dei sei attentati sventati dalla primavera scorsa in Francia. Il terrorismo è stato l'argomento del colloquio telefonico tra il presidente americano, Barack Obama e il presidente francese, Francois Hollande. I due leader sono impegnati a ''indebolire e sconfiggere l'Isis''. Hollande sara' a Washington il 24 novembre prossimo. Dopo i sanguinari attacchi a Parigi l'Ue si blinda. "Gli Stati membri si impegnano ad effettuare i necessari controlli sistematici e coordinati alle frontiere esterne, anche per i cittadini dell'area di libera circolazione". Si legge nella bozza di conclusioni del consiglio Interni straordinario di domani, di cui l'ANSA ha copia. L'allarme arriva anche dall'Europol: "Con gli attacchi di venerdì a Parigi c'è stata una grave escalation della minaccia terroristica dell'Isis, è il primo esempio stile Mumbai 2008. E' un fenomeno diverso: l'Isis vuole esportare in Europa la sua atroce violenza. Hanno enormi risorse e sono possibili altri attacchi", così il direttore Rob Wainwright. Tra le misure identificate nel documento per rafforzare le proprie frontiere: l'aggiornamento di database e sistemi elettronici di controllo ai confini con connessioni agli archivi elettronici di Europol e Interpol; la registrazione sistematica e la raccolta delle impronte digitali di tutti i migranti che entrano nell'area Schengen, oltre a controlli di sicurezza in base al Sistema di informazione Schengen 2, il database dell'Interpol Sltd ed altri. Si prevede inoltre l'impiego delle squadre di intervento rapido (Rabit) e di polizia alle frontiere per garantire un monitoraggio sistematico e controlli di sicurezza. Frontex "contribuirà alla lotta contro il terrorismo e sosterrà la messa in pratica coordinata della lista degli indicatori di rischio, prima di fine 2015" inoltre assisterà gli Stati Membri nell'aumento dei controlli delle frontiere esterne, per individuare foreign fighter e trafficanti di armi. In totale sono state effettuate 7 nuove perquisizioni questa mattina nell'area brussellese: una a Laeken direttamente legata a Parigi, che ha portato a un fermo, e altre 6 in diverse zone di Bruxelles (Molenbeek, Jette, Uccle, Bruxelles). Queste ultime, anche se riguardano amici e parenti di uno dei kamikaze dello Stade de France, Bilal Hafdi, sono relative a un'inchiesta già aperta dalle autorità belghe a inizio anno quando il ragazzo era andato in Siria. "Approfittiamo ora dell'occasione per chiudere in qualche modo delle porte", ha affermato il portavoce della Procura federale. Intanto il premier francese Manuel Valls ha parlato davanti all'Assemblea nazionale: "L'immaginazione macabra" dei mandanti del terrorismo islamico "non ha limiti", e "oggi non possiamo escludere niente", ci può anche "essere il rischio di armi chimiche e biologiche". Oggi ha parlato di nuovo anche Hollande. "La Francia non deve perdersi per vincere la guerra, e risponderà all'odio con la fratellanza, al terrore con la forza del diritto, al fanatismo con la speranza. La Francia risponderà restando la Francia", ha detto il presidente. E nella sua newsletter E-news interviene anche il premier italiano Renzi: "Il loro obiettivo è farci morire come piace a loro. Ma quando non ci riescono si accontentano - si fa per dire - di farci vivere come piace a loro. Ecco perché dobbiamo reagire con determinazione e non permettere alla paura di oscurare la libertà. Dobbiamo reagire, certo senza rinunciare a vivere".Intelligence Usa-Iraq, Isis lavora a armi chimiche - L'Isis sta perseguendo lo sviluppo di armi chimiche attraverso la realizzazione di una sezione dedicata alla ricerca e agli esperimenti con l'aiuto di scienziati siriani, iracheni e di altri Paesi della regione, hanno affermato funzionari dell'intelligence di Usa e Iraq citati in forma anonima dalla Ap. Blitz a Saint-Denis, 3 morti e otto arresti. 'Abaaoud ucciso nel raid'- Secondo l'ultima notizia data dal procuratore di Parigi il 'cervello' degli attacchi di Parigi Abdelhamid Abaaoud è stato ucciso nel raid di Saint Denis. Secondo la Dernière heure anche il ricercato d'Europa n.1, Salah Abdeslam, tra i terroristi del Bataclan che sembrava si nascondesse a Molenbeek, era nell'appartamento assaltato a Saint-Denis e sarebbe anche lui tra le vittime. Invece l'online della tv pubblica belga francofona Rtbf smentisce: "Né Abdelhamid Abaaoud né Salah Abdeslam sarebbero tra i morti del blitz a Saint-Denis". L'emittente cita "fonti ufficiali belghe che desiderano restare anonime e ambienti vicini all'inchiesta". Resta forte l'incertezza sulla sorte dei due ricercati più pericolosi d'Europa. LA CRONACA DEL BLITZ - Il blitz all'alba a Saint-Denis, la banlieue 'dura' di Parigi, dove la polizia - grazie a un cellulare dei kamikaze trovato in un cestino davanti al Bataclan - ha localizzato il covo dei terroristi che, stando ad alcuni sms sul telefonino trovato - progettavano un attentato alla Defense, la zona dove sono concentrati molti uffici nella capitale francese. Nei due appartamenti individuati si cercava Abdelhamid Abaaoud, 28 anni, nato a Molenbeek, la 'mente' delle stragi. Il premier francese Francois Hollande ha ringraziato le forze dell'ordine e ribadito che la Francia è in guerra e anche per questo verranno utilizzate misure emergenziali. Durante il raid la polizia ha sparato "5.000 colpi", ha detto il procuratore Molins. La "porta blindata dell'appartamento ha permesso ai terroristi di reagire alle forze dell'ordine", ha aggiunto, precisando che ci "è voluta un'ora" per abbatterla. Secondo la tv pubblica francese France 2, i terroristi di Saint-Denis si preparavano a commettere attentati all'aeroporto di Roissy Charles de Gaulle e nel quartiere d'affari parigino della Defense. Alle 4 e 20, quando è iniziato il blitz terminato alle 11.30 della polizia - intervenuta con uno schieramento impressionante a 800 metri dallo Stade de France - una donna kamikaze ha azionato la propria cintura esplosiva e si è fatta saltare. Un altro terrorista è stato ucciso. Poi la reazione degli occupanti degli appartamenti, che per il loro numero ha sorpreso le teste di cuoio e cinque agenti sono rimasti feriti. Sul posto in mattinata Francois Molins, procuratore di Parigi, e il ministro dell'Interno, Bernard Cazeneuve. "Tre terroristi sono stati arrestati - aveva detto Molins - una ragazza si è fatta esplodere, un uomo è stato trovato morto, colpito da proiettili e bombe. Altre due persone che si nascondevano fra le macerie sono state arrestate". "Non possiamo rivelare l'identità di queste persone - ha detto il procuratore - solo in funzione degli esami saremo in grado difarlo. Gli agenti hanno passato al setaccio appartamento per appartamento del palazzo della place Jean Jaures. Nell'assalto è morto anche un cane poliziotto. L'animale è stato utilizzato all'inizio dell'assalto, gli agenti l'hanno fatto entrare nell'appartamento ed è rimasto subito ucciso dalla reazione dei terroristi asserragliati con le armi in pugno. "La nostra città soffre ma resta in piedi", ha detto il sindaco di Parigi Anne Hidalgo. Saint Denis, il sobborgo a nord di Parigi blindato per sette lunghissime ore. Tanto è durato il blitz della polizia alla ricerca di Abdelhamid Abaaoud, la 'mente' della strage di venerdì scorso. Ecco, minuto per minuto il film del blitz: • ORE 4.30 - Inizia il blitz delle forze dell'ordine francesi nel quartiere di Saint Denis, sobborgo a nordest di Parigi. Testimoni parlano di circa 15 minuti di spari, ripresi mezzora dopo, e di una forte esplosione. • ORE 6.20 - Poliziotti sono stati feriti nel corso dell'assalto delle forze speciali francesi a Saint-Denis, nella banlieue nord di Parigi. E' quanto riferiscono fonti vicina all'inchiesta, citate dal Figaro. • ORE 6.34 - Tre fermi a Saint-Denis, a qualche centinaio di metri dallo Stade de France. Teste di cuoio francesi hanno circondato un palazzo. "Si cerca il cervello" degli attentati di venerdì scorso. • ORE 6.40 - Sarebbero almeno cinque gli uomini uomini barricati all'interno dell'appartamento obiettivo del blitz della polizia francese scattato stamani a Saint-Denis. Abdelhamid Abaaoud, la presunta mente degli attentati di Parigi, potrebbe essere il principale obiettivo. • ORE 6.55 - Fermati i trasporti pubblici a Saint-Denis, il comune della banlieue nord di Parigi dove è in corso una sparatoria tra uomini armati barricati in un appartamento e le teste di cuoio. Le scuole restano aperte tranne che nel centro della cittadina, ormai sprangato dalle forze dell'ordine. Un elicottero sorvola la zona. • ORE 06.59 - L'assalto a Saint-Denis è "ancora in corso", tutta la popolazione è invitata a rimanere "in casa". • ORE 7.04 - Il presunto cervello degli attentati di Parigi Abdelhamid Abaaoud è l'obiettivo del blitz delle forze di sicurezza francesi in corso a Saint-Denis. Lo ha ufficializzato la polizia sul posto. • ORE 7.09 - C'è almeno un morto nell'operazione della polizia a Saint-Denis, si è appreso ufficialmente. Non è certo se la vittima sia fra i poliziotti o fra gli uomini che sono obiettivo del blitz. • ORE 7.54 - Due terrorsti morti nell'assalto, una donna kamikaze che si è fatta esplodere, un altro degli uomini barricati nell'appartamento. • ORE 8.06 - Almeno una persona è ancora barricata nell'appartamento di Saint-Denis sotto assedio. • ORE 8.24 - Il primo ministro Manuel Valls e il ministro dell'Interno, Bernard Cazeneuve, sono entrati all'Eliseo per seguire insieme con il presidente Francois Hollande le notizie sullo svolgimento del blitz. • ORE 10.49 - I terroristi obiettivo dell'incursione della polizia a Saint-Denis progettavano un attentato alla Defense, il quartiere degli affari alle porte di Parigi. Lo dice una fonte dell'inchiesta. L'informazione proverrebbe dagli ultimi sms trovati sul cellulare di uno dei terroristi fuori dal teatro Bataclan. • ORE 11.04 - Sono sette i fermati nel blitz della polizia a Saint-Denis scattato ormai più di sei ore fa. Secondo le informazioni raccolte sul posto, si tratta di tre terroristi e quattro "sospetti". • ORE 11.26 - Un cane poliziotto è rimasto ucciso nel blitz. L'animale è stato utilizzato all'inizio dell'assalto, gli agenti l'hanno fatto entrare nell'appartamento ed è rimasto subito ucciso dalla reazione dei terroristi asserragliati con le armi in pugno. • ORE 11.55 - Tutti i terroristi sono stati 'neutralizzati'. • ORE 12.10 - Poliziotti sfondano porta chiesa vicino al covo. • ORE 12.17 - Secondo i media belgi Abaaoud sarebbe morto, ma è giallo sulla sorte della 'mente' del venerdi 13 della Francia. • ORE 12.18 - Nell'appartamento c'erano 7 persone. "tre terroristi sono stati arrestati - ha detto il procuratore francese al termine del blitz - una ragazza si è fatta esplodere, un uomo è stato trovato morto, colpito da proiettili e bombe. Altre due persone che si nascondevano fra le macerie sono state arrestate"."Non possiamo rivelare l'identità di queste persone, solo in funzione degli esami saremo in grado di farlo prossimamente". IL MALI. • Il Mali è uno Stato dell'Africa occidentale situato all'interno e senza sbocchi sul mare. Il Mali confina a nord con l'Algeria, ad est con il Niger, a sud con il Burkina Faso e la Costa d'Avorio, Popolazione: 15,3 milioni (2013) Banca Mondiale Continente: Africa Valuta: Franco CFA BCEAO Presidente: Ibrahim Boubacar Keïta Lingua ufficiale: Lingua francese I principali caratteri distintivi dell’ambiente fisico consistono nella varietà di zone morfologiche e climatiche, legata alla grande estensione del paese, e nella presenza del corso del fiume Niger, che attraversa il M. per 1800 km, impaludandosi nella depressione centrale in un ampio sistema di laghi, di rami secondari e bracci morti, denominato correntemente ‘delta interno del Niger’. Il rilievo è costituito da tre grandi elementi morfologico-strutturali, che si susseguono in direzione SO-NE. Il primo, al confine sud-occidentale, è rappresentato dalle propaggini settentrionali dell’altopiano guineano, da cui trae origine il Niger; subentra poi una zona di altopiani, sulla destra del medio Niger; infine un’area di bassopiani a N, sovrastata, al confine con l’Algeria, dal vasto massiccio dell’Adrar des Ifoghas (942 m). In complesso il 65% del territorio è desertico o semidesertico. La rete idrografica, essenzialmente costituita dai fiumi Senegal e Niger (che riceve da destra il tributo del Bani), esercita un ruolo fondamentale, specie attraverso il secondo, la cui piena annuale rappresenta una risorsa fondamentale per lo sviluppo agricolo e che ha sempre attratto agricoltori e pescatori. Quanto al clima, si passa da caratteristiche subequatoriali all’estremo S (dove le precipitazioni sono superiori a 1300 mm) a condizioni di sempre maggiore aridità procedendo verso N: in gran parte del paese il clima è di tipo tropicale steppico, poi, a settentrione del corso del Niger, di tipo predesertico saheliano, o addirittura desertico. Parallelamente alla diminuzione delle piogge va accentuandosi l’escursione termica annua, che da valori minimi (1-2 °C) nelle aree più a S sale a quasi 20 °C all’estremo Nord. La vegetazione spontanea è formata da savane nelle aree meridionali, mentre procedendo verso N assume caratteri steppici e desertici sempre più marcati. La densità media di popolazione (10,2 ab./km2) è molto bassa. I tre quarti degli abitanti e quasi tutta la popolazione urbana si concentrano nella regione centro-meridionale, il cosiddetto M. utile, in termini di potenzialità agricola. La rarefazione demografica è massima nelle plaghe sahariane, che occupano più della metà del territorio e costituiscono l’ambito dei popoli pastori, essenzialmente i Tuareg, i quali nomadizzano tra il massiccio dell’Adrar e l’ansa del Niger. I Tuareg non hanno mai accettato di sottostare al dominio politico esercitato dal gruppo etnico più consistente, i Mandingo, e si sono ribellati a più riprese contro il potere di Bamako. Il gruppo mandingo forma il 40% della popolazione e comprende i Bambara (30%), la cui lingua tende a diventare l’idioma veicolare del M., i Malinke e i Soninke. Nella parte centrale del bacino del Niger sono presenti anche i Peul (10%). Le altre etnie fanno parte di famiglie voltaiche, come i Senufo, o sudanesi, come i Dogon. L’incremento demografico (2,7% annuo nel 2008) è molto sostenuto (per effetto di un quoziente di fecondità che supera i 6 figli per donna) e alimenta intensi flussi migratori, sia stagionali verso i paesi contermini sia stabili verso l’Europa (Francia soprattutto). Le condizioni di vita sono precarie per la maggior parte della popolazione, come attesta la posizione di retroguardia (173° posto su 177) occupata dal M. nella graduatoria mondiale (2005) dell’indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite (speranza di vita alla nascita: 53,1 anni; tasso di alfabetizzazione: 24%; reddito effettivo pro capite: 1033 dollari). Lingua ufficiale resta il francese, ma il bambara ha carattere di lingua nazionale, e coesiste con un’altra decina di idiomi parlati dai gruppi più numerosi; i nomadi del Nord parlano idiomi arabi o berberi. La quasi totalità della popolazione è musulmana sunnita; il resto è animista, con un’esigua minoranza cristiana. 3. Condizioni economiche Lo sviluppo delle strutture legate all’economia di tratta, favorito dal collegamento con il porto senegalese di Dakar (la costruzione della ferrovia Dakar-Bamako risale al 1924), consentì al paese di emergere tra quelli dell’interno. Dopo l’indipendenza, il M. credette di trovare una via allo sviluppo adottando un’organizzazione economico-sociale di tipo collettivista, che finì per provocare una paralisi dell’attività economica, a vantaggio unicamente di un pletorico apparato burocratico. Il quadro economico è migliorato a partire dagli anni 1990, dopo l’adozione di riforme con il supporto delle istituzioni finanziarie internazionali. Ma lo sviluppo del M. è ostacolato da più elementi di debolezza: l’isolamento, la carenza di infrastrutture, e soprattutto l’aridità dell’ambiente, legata alla progressiva desertificazione del Sahel. Gravi e prolungati episodi di siccità, protrattisi anche per parecchi anni di seguito, hanno fra l’altro innescato conflitti tra coltivatori e allevatori per l’utilizzazione delle acque del Niger e accelerato l’esodo verso le città di moltitudini rimaste senza risorse. L’agricoltura, praticabile peraltro solo nelle aree rivierasche del Niger (il 5% di tutto il territorio), rappresenta, insieme con l’allevamento, la principale risorsa del paese. Alle colture di cereali (miglio, riso, sorgo e mais) destinate all’alimentazione locale, si affiancano quelle commerciali: soprattutto cotone (300.000 t di semi e 160.000 t di fibra nel 2006; il M. è il terzo produttore africano dopo il Burkina Faso e l’Egitto), arachidi e canna da zucchero. Il delta interno del fiume Niger è sede di uno dei più annosi e importanti progetti di irrigazione dell’Africa a S del Sahara, l’Office du Niger, avviato dai Francesi nel 1932, con il duplice obiettivo di provvedere ai fabbisogni di cotone dell’industria tessile francese e di assicurare l’autosufficienza alimentare locale dando impulso alla risicoltura irrigua. Notevole importanza ha l’allevamento (7,7 milioni di bovini e oltre 20 milioni di capi tra caprini e ovini). Tra le risorse del sottosuolo si segnala in particolare l’oro, la cui produzione, in sensibile crescita, è arrivata a rappresentare la più importante fonte di proventi delle esportazioni. Il M. è particolarmente vulnerabile alle fluttuazioni dei prezzi del cotone sui mercati mondiali, e ha un elevato grado di dipendenza dagli aiuti esteri. La produzione manifatturiera si limita essenzialmente alla lavorazione di prodotti agricoli e a qualche altra modesta attività (impianti tessili, meccanici, chimici, cementifici, calzaturifici ecc.). La bilancia commerciale è cronicamente passiva, ed è appesantita dalla dipendenza dall’estero per forniture energetiche e prodotti industriali. Le strade (15.000 km, di cui 3000 asfaltati) sono in gran parte percorribili solo stagionalmente. Gli aeroporti principali sono quelli di Bamako e di Mopti. Lo Stato africano che, con l’indipendenza nel 1960, fu chiamato M. si era formato con il nome di Sudan nell’Africa Occidentale Francese. Il M. antico era popolato e dominato dai Malinke o Manding. Secondo la leggenda, il fondatore dell’impero fu Sundiata Keita (o Marj-Diada), autore della distruzione del potere residuo del Ghana, che avrebbe regnato dal 1230 al 1255. La dinastia si convertì all’islam e le principali città del M. divennero sedi di arte e cultura musulmana, anche se rimase in vigore il principio della discendenza matrilineare e, nel complesso, la popolazione continuò a professare culti pagani. La compattezza dell’impero fu scossa dai Tuareg che conquistarono Tombouctou (1435), dai Mossi e dai Songhai; l’ultima dinastia sudanese con centro a Gao fu quella degli Askia. Dopo un lungo periodo di semianarchia, la penetrazione commerciale e coloniale vide come protagonisti i Francesi; nel 1880 una missione, comandata da J.-S. Gallieni, rivelò la via del Niger, nel 1883 fu stabilita una piazzaforte a Bamako, fra il 1888 e il 1898 furono conquistate Timbuctù e Gao, dando vita all’Africa Orientale Francese, che era imperniata su Dakar e il Senegal. Nel 1958 un referendum istituì la V Repubblica in Francia e la Comunità franco-africana, cui il Sudan aderì. Nel 1960 Sudan e Senegal proclamarono la loro indipendenza formando la Federazione del M., ma ben presto il Senegal se ne distaccò e il Sudan decise di conservare per sé la denominazione di M., proclamandosi indipendente (22 settembre). L’Union soudanaise e il presidente M. Keita avviarono un esperimento ispirato al ‘socialismo africano’, alleandosi a Ghana e Guinea. Ma l’uscita dalla zona del franco provocò gravi problemi economici che condussero a un colpo di Stato militare (19 novembre 1968). Il generale M. Traoré fu eletto presidente nel 1979 e di nuovo nel 1985 in un crescendo di instabilità, autoritarismo e corruzione, sotto l’egida di un partito unico (Union démocratique du peuple malien). Il regime militare precipitò fra il 1990 e il 1991. Dopo una sommossa finita nel sangue i militari intervennero arrestando lo stesso presidente. L’assestamento del potere avvenne mediante una Conferenza nazionale, la Costituzione e l’elezione di un presidente e dell’Assemblea nazionale (1992). Alla presidenza salì A.O. Konaré, leader dell’Alliance pour la démocratie en Mali-Parti panafricain pour la liberté, la solidarité et la justice (ADEMA). La profonda fragilità delle alleanze fra i partiti, la sospensione degli aiuti finanziari da parte del Fondo monetario internazionale e della Banca Mondiale e, infine, nel gennaio 1994, la svalutazione del 50% del franco CFA, accompagnarono il fallimento di varie coalizioni governative guidate dall’ADEMA. Nonostante l’accordo dell’agosto 1994 con cui il governo centrale aveva sottoscritto l’impegno a proteggere i diritti della minoranza tuareg, solo nella primavera del 1995 si giunse all’abbandono della lotta armata da parte dei gruppi più estremisti e all’avvio di una reale integrazione dei Tuareg. Il primo turno delle elezioni legislative (aprile 1997) registrò una netta vittoria dell’ADEMA in un clima di disordini e irregolarità. In seguito i risultati furono invalidati. Ciononostante, le consultazioni per l’elezione del presidente, svoltesi nel maggio, confermarono Konaré. Boicottate dalle principali forze politiche e ulteriormente rimandate, le nuove elezioni generali si svolsero in un clima di grave tensione politica. Mentre alcuni importanti esponenti delle opposizioni venivano arrestati, nel settembre 1997 I.B. Keita formò un nuovo governo con l’appoggio di gruppi dell’opposizione moderata. Ma lo scontro politico, le tensioni sociali, le violenze tra gruppi etnici in diverse aree del paese, nonché i problemi di sicurezza ai confini settentrionali, portarono Keita a dimettersi dalla carica di primo ministro per essere sostituito da M. Sidibé. Nel 2002 divenne presidente A.T. Touré. Si formò un nuovo governo di ‘unità nazionale’, formula perseguita fino all’aprile 2004, quando venne costituito un nuovo esecutivo. I tentativi di migliorare le condizioni di vita della popolazione furono però affossati da gravi crisi alimentari. Inoltre permaneva il problema della guerriglia interna, alimentata dai Tuareg e da gruppi islamici integralisti. Nell’aprile 2007 Touré ha vinto nuovamente le elezioni presidenziali, ottenendo il suo terzo e ultimo mandato. Nel marzo 2012 un gruppo di militari ha deposto il presidente, accusato di non essere in grado di soffocare l'insurrezione organizzata nel gennaio precedente nel nord-est del paese dai Tuareg, che reclamano l'indipendenza e l'autodeterminazione politica e culturale. I militari hanno quindi formato un'autorità governativa provvisoria, il Comitato nazionale per il ripristino della democrazia e dello Stato (CNRDR), mentre i lealisti fedeli a Touré - sulle cui sorti sono circolate poche e contraddittorie notizie - hanno iniziato a mobilitarsi per organizzare un controgolpe. Il 10 aprile, dopo una complessa trattativa tra la giunta militare e l'Ecowas, la Corte costituzionale ha ratificato l'affidamento del mandato presidenziale al presidente del Parlamento D. Traoré; pochi giorni dopo i militari e la classe politica maliana hanno trovato un accordo sulla nomina del primo ministro del governo di transizione, incarico che è stato affidato a C.M. Diarra. A maggio i golpisti e gli inviati della Comunità economica degli Stati dell'Africa Occidentale hanno raggiunto un accordo definitivo sul periodo di transizione, che sarebbe dovuto durare dodici mesi, ma a dicembre, dopo essere stato arrestato dai militari, Diarra ha rassegnato le dimissioni. Nel gennaio 2013 Traoré ha chiesto e ottenuto un intervento aereo della Francia, in accordo con l'Ecowas, contro i ribelli del nord del Paese, a seguito del quale sono state liberate molte città che erano cadute in mano ai fondamentalisti islamici. Le consultazioni presidenziali tenutesi nel mese di agosto hanno registrato la vittoria dell'ex primo ministro I.B. Keita, eletto al secondo turno con il 77,61% dei voti contro il 22,39% dello sfidante S. Cissé, mentre la nomina a premier di M. Mara (aprile 2014) ha contribuito a rafforzare l’impegno pacificatore profuso dalle forze governative, affiancato tra l'altro dall’agosto 2014 dalla missione militare di counter-terrorism a guida francese Barkhane, avente l'obiettivo di contrastare il terrorismo militante nella fascia sahelo-sahariana. Nel luglio 2014 si sono aperti ad Algeri i negoziati per la pacificazione del Nord del Paese, i cui esiti sono stati alquanto compromessi dal mancato accordo sulla tipologia dell’autonomia da accordare ai territori settentrionali; l’apertura delle trattative è slittata al settembre 2014, e un primo accordo è stato prodotto nel febbraio 2015, contemplando una tregua immediata delle ostilità, la liberazione dei prigionieri e la partecipazione a un comitato per la sicurezza e la protezione dei civili. In un quadro sociopolitico interno comunque ancora tormentato dai conflitti etnici e agitato sul piano internazionale dall'inasprimento dell'offensiva islamica contro l'Occidente, cellule jihadiste hanno realizzato nel corso del 2015 numerosi attentati nel Paese - avendo generalmente come obiettivo strutture ricettive frequentate da stranieri -, il più grave dei quali è quello di Bamako del novembre 2015. Fonte: Enciclopedia Treccani. Enciclopedia delle scienze sociali (1992) di David K. Fieldhouse, Lawrence Rosen COLONIZZAZIONE-E DECOLONIZZAZIONE Economia e politica di David K. Fieldhouse sommario: 1. Introduzione. 2. La colonizzazione europea agli albori dell'epoca moderna, 1415-1763: a) cause e modalità; b) sistemi economici coloniali; c) metodi di governo. 3. La colonizzazione moderna, 1763-1945: a) la prima decolonizzazione e la riorganizzazione degli imperi, 1763-1820; b) la pax britannica, 1820-1880; c) il 'nuovo imperialismo', 1880-1914; d) l'ultima fase di espansione coloniale e la successiva ripartizione, 1914-1945. 4. Il carattere del colonialismo moderno: a) forme di governo; b) economie coloniali; c) l'impatto sociale della colonizzazione. 5. La decolonizzazione, 1945-1985. □ Bibliografia. 1.Introduzione Lo Shorter Oxford dictionary definisce la colonizzazione come "l'azione del colonizzare o il fatto di essere colonizzati; la fondazione di una o più colonie". Lo stesso termine 'colonia' deriva dal latino colonia, parola indicante una masseria o un insediamento agricolo: coloni, dunque, erano considerati quegli agricoltori che creavano nuovi insediamenti. Una colonia era appunto un insediamento di cittadini dell'antica Roma in un territorio ostile o appena conquistato, abitando il quale essi conservavano nondimeno i loro diritti di cittadinanza. Questi elementi continuarono a essere fondamentali nel moderno concetto di colonizzazione, e infatti molte colonie costituite in epoca moderna erano composte da individui che fondavano comunità agricole in terra straniera continuando a essere cittadini (o sudditi) dello Stato da cui provenivano, la madrepatria. In questi luoghi i coloni portavano con sé la legge e molte delle istituzioni del loro paese d'origine: insediamenti di questo tipo, pur lontanissimi, diventavano vere e proprie estensioni della madrepatria. Ma la parola cominciò a essere utilizzata anche in riferimento a un vasto numero di territori che divennero possedimenti di altri Stati, nonostante fossero pochissimi coloro che vi si trasferivano stabilmente e nonostante tali territori non fossero, da un punto di vista giuridico, possedimenti della madrepatria, di cui non adottavano né le leggi né i costumi. La Nigeria, per esempio, viene convenzionalmente considerata una 'colonia' britannica; di quel vasto paese, tuttavia, soltanto il Lagos era una colonia giuridicamente appartenente alla Gran Bretagna, in cui coloro che vi risiedevano in pianta stabile erano sudditi britannici e in cui, nella maggior parte dei casi, prevaleva la legge britannica. La rimanente parte del territorio - suddivisa a sua volta in due regioni distinte, l'una a nord e l'altra a sud - era giuridicamente un protettorato sul quale la Gran Bretagna esercitava la sua autorità, in virtù di trattati stipulati con i governanti locali e in virtù della sua stessa potenza. Gli abitanti di queste due regioni si trovavano sotto la protezione britannica, senza però essere considerati veri e propri sudditi. Altrove le 'colonie' stavano a indicare degli Stati protetti, delle unità politiche autoctone che mantenevano la propria autonomia e nazionalità, anche se sotto il reale controllo di una potenza imperiale straniera; esempi di questo genere furono il Marocco e i sultanati della Malesia. A creare ulteriore confusione, dopo il 1918 gli alleati vittoriosi si spartirono, con il nome di 'mandati', tutti i possedimenti tedeschi d'oltremare (che erano dei protettorati) e ciò che rimaneva delle conquiste ottomane in Medio Oriente. In pratica, un mandato era alquanto simile a un protettorato, o Stato protetto, ma era governato sotto la supervisione della Società delle Nazioni e successivamente, in quanto territorio soggetto ad amministrazione fiduciaria, sotto quella delle Nazioni Unite. Queste, tuttavia, sono distinzioni puramente tecniche, e sarebbe ora davvero fuori luogo restringere la trattazione delle vicende coloniali a quei territori che erano pienamente conformi a una qualche rigorosa definizione giuridica. In questo articolo, pertanto, il termine 'colonia' sarà assunto per indicare qualsiasi territorio venutosi a trovare sotto l'effettivo controllo politico di un altro Stato, ma rimasto pur sempre distinto da questo. Insieme la madrepatria e le sue colonie costituivano un 'impero', termine rispecchiante l'autorità e il potere di quel centro intorno a cui ruotava tutto il resto. È chiaro che una definizione così generica potrebbe includere, almeno potenzialmente, molti paesi di solito non considerati colonie: per esempio, i possedimenti balcanici dell'Austria prima del 1918, oppure gli Stati dell'Est europeo, che si trovavano sotto il diretto controllo sovietico. Nella presente trattazione questi casi marginali sono esclusi: il termine 'colonizzazione' verrà assunto nel suo significato più comune di insediamento in, o di controllo su, un territorio chiaramente distinto dalla sua madrepatria per quel che riguarda sia la collocazione geografica sia le caratteristiche climatiche, etniche e culturali. Conseguenza della colonizzazione è il colonialismo, ovvero l'assoggettamento di un territorio o di un popolo. La parola 'decolonizzazione' è entrata a far parte del vocabolario in epoca più recente: il Supplement del 1972 all'Oxford English dictionary fa risalire la comparsa di questo termine nella lingua inglese al 1938, quando esso fu utilizzato nella frase: "un movimento di decolonizzazione sta dilagando in tutti i continenti". Parola di origine francese e applicata in primo luogo alle colonie della Francia, intorno al 1972 essa giunse a indicare "l'abbandono, da parte di una potenza coloniale, delle colonie precedentemente acquisite: la conquista, da parte di tali colonie, dell'indipendenza politica o economica", ovvero una totale emancipazione. L'espressione originaria inglese era 'trasferimento di potere', espressione che aveva il significato più limitato e specifico di cessazione della sovranità politica e del controllo esercitati dalla madrepatria su un territorio da essa dipendente, cessazione simbolicamente racchiusa nell'atto di ammainare la bandiera imperiale e nel trasferimento delle leve del potere alla classe politica dello Stato in via di formazione. Questa fase di transizione poteva concludersi con una completa emancipazione delle ex colonie dai molteplici aspetti della loro dipendenza, ma poteva anche non giungere a tanto, almeno a breve termine. È forse per questo motivo che 'decolonizzazione' è divenuto attualmente il termine preferito, in un'accezione volutamente generica, per indicare la fine del colonialismo in tutte le sue manifestazioni, e anche noi ci atterremo a quest'uso. La colonizzazione e la decolonizzazione hanno caratterizzato la storia umana da sempre, o perlomeno da quando vi sono testimonianze storiche pervenute fino a noi. Quasi tutti i territori dell'Europa, dell'Africa, dell'Asia, dell'America centrale e meridionale hanno fatto parte di qualche impero molto tempo prima della moderna colonizzazione europea. Gli Egiziani, i Babilonesi, gli Assiri, i Persiani, i Romani, i Bizantini, gli Arabi, i Cinesi, gli Incas e gli Aztechi furono tutti popoli che fondarono altrettanti imperi: si trattava quasi sempre di imperi continentali, edificati attraverso un'espansione militare nelle regioni limitrofe, ma ci sono stati anche imperi marittimi più simili agli imperi europei dell'epoca moderna. Gli indù e i musulmani, partendo rispettivamente dall'India e dall'Arabia, si sono insediati o hanno imposto la loro autorità in molte aree dell'Oceano Indiano, nel Sudest asiatico e nel Mediterraneo; i Cinesi colonizzarono molte isole dell'arcipelago indonesiano; i Veneziani edificarono un impero marittimo nel Mediterraneo; ampie zone del Pacifico meridionale furono colonizzate da popolazioni le cui origini rappresentano ancora argomento di discussione. La trattazione di tutte queste imprese di conquista potrebbe a buon diritto essere inclusa in un saggio sulla colonizzazione; in effetti J. A. Schumpeter sosteneva che non esiste una ben definita linea di demarcazione tra il processo di fondazione degli imperi antichi e quello degli imperi moderni: sono stati tutti, in larghissima misura, il prodotto di quelle che egli ha chiamato "tendenze 'prive di scopo' a un'espansione impetuosa, condotta senza alcuna finalità chiaramente utilitaristica, seguendo piuttosto delle inclinazioni non razionali e irrazionali, puramente istintive, alla guerra e alla conquista". Allo stesso modo, si potrebbero riscontrare analogie molto strette tra le origini della decolonizzazione attuatasi nell'antichità e le origini della decolonizzazione moderna. In questa sede, tuttavia, la colonizzazione verrà esaminata unicamente nel contesto dell'espansione dell'Europa moderna a partire dal XV secolo, e questo perché, tra le altre cose, sarebbe impossibile affrontare esaurientemente, in un breve articolo, il tema della colonizzazione in tutte le epoche storiche: ciò equivarrebbe a ripercorrere la storia di tutto il mondo conosciuto. Ma una ragione più importante sta nel fatto che vi sono fondamentali differenze tipologiche tra le forme di colonizzazione proprie delle varie epoche: gli imperi continentali dell'antichità, per esempio, possono manifestare qualche somiglianza con gli imperi costituitisi entro i confini geografici dell'Europa, ma non ne hanno quasi nessuna con i moderni imperi d'oltremare. Esiste, piuttosto, un'affinità di gran lunga maggiore tra questi ultimi e i più antichi imperi marittimi, o almeno parzialmente tali, come quelli fondati da Atene, Cartagine, Roma, Venezia e dagli Ottomani. In effetti potrebbero essere individuate tra i primi e i secondi molte significative analogie, sebbene, in ultima analisi, si debbano riconoscere tra di essi differenze di genere, non semplicemente di grado. La lontananza dei possedimenti, la loro estensione, le radicali differenze di clima e di cultura, la tecnologia delle comunicazioni, le strategie di controllo politico e i sistemi di sfruttamento economico collocano i moderni imperi d'oltremare su un piano a sé stante. Essi rappresentano un oggetto di studio del tutto particolare e verranno qui esaminati in quanto fenomeni storici speciali se non unici. L'analisi si articola in quattro capitoli principali. Il secondo capitolo descrive le forme di colonizzazione risalenti agli albori dell'Europa moderna, dal XV secolo alla metà del XVIII. Il terzo si occupa della colonizzazione moderna nel periodo compreso tra il 1763 e il 1945. Il quarto analizza le caratteristiche delle moderne società coloniali prodotte dalla colonizzazione. Il quinto esamina le cause e il processo stesso della decolonizzazione, valutando fino a che punto il trasferimento del potere abbia dato luogo a una ristrutturazione radicale della fisionomia delle ex colonie e dei loro legami col mondo esterno. 2. La colonizzazione europea agli albori dell'epoca moderna, 1415-1763 a) Cause e modalità Sotto molti e importanti punti di vista, la colonizzazione europea attuatasi tra il XV e il XVIII secolo differì da quella posteriore, del XIX secolo e oltre. In primo luogo, in quell'epoca gli Europei non erano, per molti versi, molto più progrediti sul piano tecnologico né molto più civilizzati della maggior parte dei popoli che conquistavano. Ciò era particolarmente vero rispetto ai popoli asiatici i quali, quanto alle tecniche produttive, all'equipaggiamento militare, alla conoscenza dei mari e della tecnologia navale, alle capacità scientifiche, al grado di istruzione e ai presumibili livelli di reddito (tanto per richiamare alcuni ovvi parametri), erano almeno sullo stesso piano dei popoli dell'Europa occidentale. In verità l'Europa stava appena raggiungendo, in alcuni settori, e ricorrendo spesso all'imitazione, il grado di civiltà delle più avanzate società orientali. Ciò era invece meno vero per le Americhe, le cui popolazioni si erano sviluppate in modo diverso rispetto a quelle europee e asiatiche: questo fu uno dei principali motivi per cui l'espansione della colonizzazione europea di questo periodo avvenne prevalentemente verso ovest, verso l'area, cioè, in cui la resistenza era relativamente debole. Le strutture politiche del Messico e del Perù, tuttavia, nonché taluni aspetti delle loro rispettive culture, erano a modo loro notevoli quanto quelli dell'Europa. Gli Europei avevano un largo margine di vantaggio rispetto a molte popolazioni dell'Africa Nera, ma quest'ultima non rappresentò affatto la più importante terra di conquista durante il periodo cui stiamo facendo riferimento. In sostanza, il principale vantaggio che gli Europei possedevano in quest'epoca era una maggiore mobilità, frutto di progressi relativamente recenti nell'ingegneria navale e negli equipaggiamenti di bordo; essa andava a sommarsi al vantaggio di trovarsi nella condizione di chi attacca e non in quella di chi è costretto a difendersi. Si potrebbe persino riscontrare un'analogia tra gli Europei dell'epoca e i Vichinghi dei secoli VIII-XI, i quali furono in grado di assalire, e spesso di occupare stabilmente, intere regioni dell'Europa nordorientale nonché le isole britanniche. I successi ottenuti dai Vichinghi contro società ben più ricche ed evolute della loro non furono dovuti, se non in misura irrilevante, a una loro superiorità tecnologica, ma soprattutto alla determinazione da essi dimostrata e al fatto che le loro strutture politiche e sociali erano appositamente organizzate per la guerra e il saccheggio. Il saccheggio, in effetti, fu il secondo aspetto caratteristico del periodo iniziale della moderna colonizzazione d'oltremare. Karl Marx non era lontano dal vero nella sua descrizione dell'estrema brutalità di questa fase. "La scoperta delle terre aurifere e argentifere in America, lo sterminio e la riduzione in schiavitù della popolazione aborigena, seppellita nelle miniere, l'incipiente conquista e il saccheggio delle Indie Orientali, la trasformazione dell'Africa in una riserva di caccia commerciale delle pelli nere, sono i segni che contraddistinguono l'aurora dell'era della produzione capitalistica. Questi procedimenti idillici sono momenti fondamentali dell'accumulazione originaria. Alle loro calcagna viene la guerra commerciale delle nazioni europee, con l'orbe terracqueo come teatro" (Il capitale, libro I, cap. XXIV). Le radici di questo saccheggio indiscriminato devono essere cercate nell'atteggiamento che la maggior parte degli Europei presumibilmente aveva, prima della fine del XVIII secolo, nei confronti delle popolazioni di diversa religione e cultura. Nella concezione cristiana tutti i non cristiani erano infedeli (era soprattutto il caso dei musulmani) oppure pagani, che si trovavano al di là dei limiti del mondo civilizzato quale l'Occidente lo concepiva. Oltre a ciò, soprattutto per Portoghesi e Spagnoli, la colonizzazione non rappresentava che la semplice prosecuzione delle guerre di riconquista della penisola iberica combattute contro i musulmani, una continuazione delle crociate. Il rispetto per i diritti delle altre popolazioni era quindi molto scarso e, comunque, veniva tributato ai forti, non ai deboli. Un elemento aggiuntivo era costituito dal fatto che il commercio con i continenti più lontani, inteso nel suo senso moderno, fu, per la maggior parte del periodo in questione, necessariamente limitato. L'Europa poteva offrire ben poco all'Asia in cambio dei generi di lusso che desiderava - e che, nel passato, dovevano essere trasportati esclusivamente attraverso vie di comunicazione terrestri - dal momento che i sistemi produttivi asiatici erano, in molti settori, più avanzati di quelli occidentali. Di qui il ruolo fondamentale giocato dall'esportazione di lingotti d'oro per il pagamento delle merci importate e il ricorso alla forza per istituire monopoli commerciali. Le Americhe, viceversa, producevano inizialmente poche merci che l'Europa avrebbe desiderato importare, a eccezione delle enormi quantità di metalli e di oggetti preziosi. In queste regioni, pertanto, i conquistatori razziarono tutto quello che poterono trovare e portar via, e in un secondo momento impiantarono nuove forme di produzione basate sulla principale risorsa che le Americhe (come del resto l'Africa) possedevano: la manodopera. In breve, è difficile pensare a qualcosa d'importante che la colonizzazione europea avrebbe potuto apportare in questo periodo all'Asia, come pure a qualche contributo di un certo valore che gli Europei avrebbero potuto dare alla civiltà dei popoli asiatici. Alle Americhe, invece, essi apportarono moltissime cose, ma soprattutto posero le fondamenta di quelle che in seguito dovevano diventare importanti società e civiltà; tuttavia, come vedremo più avanti, nel breve termine il loro impatto col continente americano fu largamente distruttivo. La terza caratteristica principale di questo periodo fu lo squilibrio tra la colonizzazione dei territori oltre Atlantico e quella delle altre parti del globo. Tale squilibrio non fu certamente né voluto né pianificato. L'obiettivo primario del Portogallo e della Spagna, i pionieri della moderna colonizzazione europea, era quello di trovare una rotta marittima verso le favolose ricchezze dell'Oriente, conosciute attraverso i resoconti di Marco Polo e attraverso molti racconti più o meno immaginari, come quelli che riguardavano Prete Gianni, il celebre sovrano cristiano che originariamente si pensava risiedesse in Asia. Navigando lungo tutta la costa occidentale dell'Africa, i Portoghesi giunsero finalmente a doppiare il Capo di Buona Speranza, tra il 1487 e il 1488, ma solo nel 1498 Vasco de Gama raggiunse la costa del Malabar, nell'India meridionale. Questo avvenimento è stato all'origine della colonizzazione europea dell'Asia. In un lasso di tempo particolarmente breve i Portoghesi, avendo già stipulato con la Spagna il trattato di Tordesillas (1494), con il quale avevano ottenuto il monopolio del commercio con tutte le terre scoperte a est di una linea immaginaria che passava 270 leghe (all'incirca 1.760 chilometri) a ovest di Capo Verde, tracciarono i lineamenti essenziali del loro impero asiatico. Questo impero si basava sulla potenza navale e sui porti fortificati e non su un controllo politico-territoriale ad ampio raggio o su una vera e propria opera di colonizzazione. Con una serie di fortezze distribuite su un territorio che si estendeva dall'Africa occidentale a quella orientale, a Ormuz nel Golfo Persico, alle coste dell'India (con Goa come centro operativo strategico), per arrivare poi alla Malacca e infine a Macao, presso Canton, e al Giappone, i Portoghesi riuscirono a ottenere il controllo dei vari sistemi commerciali regionali. Attraverso l'imposizione di dazi sulla navigazione essi si procuravano il denaro necessario all'acquisto delle merci, e attraverso l'instaurazione di monopoli locali potevano acquistare beni a buon mercato. Si ebbe una ridottissima colonizzazione nella forma di una emigrazione costante dal Portogallo, nonostante si celebrassero molti matrimoni misti tra soldati, marinai, funzionari portoghesi e donne del posto; questo fatto, unitamente al ruolo svolto dalla Chiesa cattolica, pose le fondamenta di quell'influenza che i Portoghesi - tranne i casi in cui vennero fisicamente espulsi da altri colonizzatori europei o, come in alcune regioni dell'Africa orientale, dai musulmani - hanno continuato a esercitare fino al XX secolo. Il modello portoghese di colonizzazione dell'Asia fu praticamente l'unico possibile, tenuto conto della distanza e del rapporto di forze tra Europei e Stati indigeni. Esso, peraltro, si rivelò anche molto vantaggioso, nella misura in cui fu possibile monopolizzare il commercio con determinati territori. Per questi motivi gli altri Stati europei seguirono da vicino l'esempio portoghese. La Spagna fu tenuta fuori dall'Asia con un trattato, ma ciò non le impedì, verso la fine del XVI secolo, di intaccare il monopolio portoghese con l'occupazione delle Filippine. Inghilterra, Olanda e Francia non sottoscrissero quel trattato e non accettarono le bolle pontificie che lo avevano preceduto. Dalla fine del XVI secolo, favorite dall'unificazione delle Corone portoghese e spagnola (1580) e dal fatto di aver combattuto spesso contro la Spagna, anche l'Inghilterra, l'Olanda e la Francia iniziarono a effettuare spedizioni in Asia. Queste nazioni, che sulle prime miravano a intrattenere rapporti commerciali senza acquisire possedimenti territoriali, compresero ben presto che, per ottenere le necessarie garanzie di sicurezza, erano essenziali delle basi fortificate. Di fronte all'atteggiamento ostile dei Portoghesi, le altre potenze europee si videro costrette a occuparne le basi in diversi punti chiave. Fu così che, nei primi anni del XVIII secolo, ognuno di questi Stati europei aveva fondato una propria rete di basi, stipulato trattati con i governanti locali e dato inizio a un'intensa attività commerciale. Inglesi e Francesi rivolsero la propria attenzione soprattutto all'India; gli Olandesi ebbero invece un campo di operazioni più vasto, che comprendeva l'India, Ceylon e l'arcipelago indonesiano. Ognuno di questi paesi imitò i Portoghesi nei loro tentativi di monopolizzare il commercio di determinati prodotti, ma, mentre le attività commerciali dei Portoghesi venivano intraprese dalla Corona e continuavano sotto il suo diretto controllo, gli Stati settentrionali erano rappresentati da compagnie private, ciascuna delle quali gestiva, in regime di monopolio, gli scambi commerciali tra l'Asia e la madrepatria. Soltanto a partire dalla seconda metà del XVIII secolo questi modelli fondamentali di colonizzazione vennero sostanzialmente modificati e la strategia incentrata su un controllo limitato del territorio fu sostituita da una strategia di vera e propria dominazione. La colonizzazione delle Americhe, quindi, era considerata a quel tempo del tutto secondaria rispetto a quella dell'Asia. Naturalmente essa fu anche la conseguenza della ricerca di una rotta marittima per l'Oriente navigando verso Occidente. La storia della scoperta delle Americhe da parte di Cristoforo Colombo, che sbarcò nel 1492 a Hispaniola credendo di trovarsi sulla rotta per l'Asia, nonché la storia della successiva conquista spagnola di altre isole caraibiche e poi, dopo il 1519, del Messico e del Perù, non possono essere qui ripercorse. Il fatto veramente importante è che, nel momento in cui si comprese che quella non era una rotta diretta per l'Oriente e che le Americhe non producevano le spezie e tutti gli altri generi di lusso che gli Spagnoli andavano cercando, nacque e si sviluppò un modello di colonizzazione radicalmente nuovo. A partire da quel momento gli Europei dovettero affidarsi all'improvvisazione, adattando le proprie tecniche al nuovo ambiente. La loro rapidità di adattamento fu davvero notevole: lo dimostra il fatto che la seconda flotta guidata da Colombo nel 1493 non trasportò merci da scambiare, bensì 1.200 uomini tra soldati, preti, notabili, artigiani e agricoltori, nonché l'equipaggiamento necessario a un insediamento permanente. Ci si era già resi conto che il valore dell'America dipendeva dalla sua effettiva occupazione. b) Sistemi economici coloniali I primi due secoli e mezzo di colonizzazione delle Americhe possono essere considerati un periodo di sperimentazione dedicato alla ricerca del modo migliore di sfruttare le risorse del continente e dei Caraibi. Gli Spagnoli furono subito raggiunti dai Portoghesi, i quali scoprirono che il Brasile si trova a est della linea tracciata nel 1494, dai Francesi, dagli Inglesi e dagli Olandesi; tutti i nuovi arrivati si opposero alla pretesa della Spagna di rimanere l'unica nazione occupante, ma poi finirono saggiamente per insediarsi in regioni che si trovavano al di fuori dell'effettiva sfera d'influenza spagnola. Fino alla fine del XVIII secolo la presenza degli Spagnoli rimase la più massiccia. Dai Caraibi, dove sperimentarono varie forme di produzione, come quella della canna da zucchero, nonché lo sfruttamento del lavoro forzato cui sottoposero gli Amerindi (il sistema del repartimiento), essi si diressero verso l'istmo centroamericano, e da lì verso il Messico e il Perù. In ognuna di queste regioni distrussero gli imperi autoctoni in cui s'imbatterono, e istituirono non solo le proprie forme di governo ma anche le proprie imprese commerciali: in Messico, enormi tenute agricole (le haciendas) basate sul lavoro forzato; in Perù, aziende agricole e miniere d'argento. Al di fuori di questi due insediamenti principali, l'occupazione spagnola fu piuttosto limitata, sebbene andasse espandendosi rapidamente in direzione della California, del Venezuela e dell'attuale Argentina già verso la fine del XVIII secolo. Modelli differenti di colonizzazione e di attività economica furono adottati in altre regioni da altri colonizzatori europei. I Portoghesi impiantarono in Brasile una produzione di zucchero su larga scala, che fu imitata da Inglesi, Francesi e Olandesi nei Caraibi. In tutte queste piantagioni il lavoro era svolto da schiavi importati dall'Africa occidentale, e ciò dette origine a sua volta a un enorme traffico di schiavi, che costituì probabilmente il più importante sottoprodotto economico della colonizzazione americana. Nella parte continentale dell'America settentrionale, che già alla fine del XVIII secolo era stata largamente occupata dagli Inglesi e dai Francesi a nord dei possedimenti spagnoli negli attuali Mississippi e Florida, i modelli di occupazione e di produzione variarono a seconda del clima e delle circostanze. Le colonie inglesi centromeridionali, che si estendevano verso nord fino al Maryland, somigliavano alle colonie caraibiche, piene com'erano di piantagioni basate sul lavoro degli schiavi e di aziende agricole che producevano zucchero, tabacco e riso. Più a nord l'attività economica prevalente andava dalla produzione di frumento al commercio delle pelli con gli indigeni. Le colonie della Nuova Inghilterra erano invece diverse da tutte le altre, in quanto si trattava principalmente di insediamenti in cui i coloni si sforzavano di riprodurre quella società che avevano abbandonato nella madrepatria, ma entro un contesto economico alquanto sfavorevole che li costringeva a fare affidamento su un'agricoltura di sussistenza, sulla produzione di legname, sulla costruzione di navigli, sulla pesca e sul commercio. Ancora più a nord e a ovest gli insediamenti francesi lungo il fiume San Lorenzo dipendevano quasi interamente dal commercio delle pelli e dalla pesca. Questo processo di colonizzazione e di sperimentazione fu soprattutto opera di coloni europei che agivano seguendo i propri interessi personali, pur ricevendo quasi sempre il sostegno formale dei rispettivi governi. Dal punto di vista dei coloni, tutto ciò che guadagnavano apparteneva loro di diritto, ma i paesi da cui provenivano e di cui invariabilmente conservavano la nazionalità erano di diverso avviso: per Madrid, Lisbona, Parigi, Londra e L'Aia, le colonie esistevano esclusivamente al fine di servire gli interessi della madrepatria. La principale difficoltà che questi Stati si trovarono ad affrontare fu quella di assicurarsi che i coloni si comportassero effettivamente secondo gli interessi del paese d'origine. La soluzione, trovata dopo un lungo periodo e solo successivamente descritta (da Adam Smith nel 1776) come 'sistema mercantilista', fu quella di assicurare alla madrepatria il monopolio del commercio con le sue colonie. Anche in questo caso gli Spagnoli furono i pionieri: fin dalle prime fasi della colonizzazione ogni spedizione commerciale da e per le colonie doveva passare attraverso un solo porto (originariamente Siviglia, in seguito Cadice), doveva essere effettuata per mezzo di flotte spagnole, che partivano una volta all'anno, e poteva essere intrapresa unicamente da mercanti spagnoli. La Corona imponeva dazi su tutte le merci da e per le Indie e incamerava anche un decimo del valore di tutti i metalli preziosi. Più tardi gli altri Stati europei seguirono questo modello in tutti i suoi aspetti, eccettuata la concentrazione dei traffici coloniali in un unico porto. Così le leggi inglesi sulla navigazione, promulgate a partire dal 1651, insistevano sul fatto che: a) tutti i commerci con le colonie dovessero avvenire attraverso navi i cui proprietari e i cui equipaggi fossero sudditi inglesi (in seguito britannici); b) tutte le merci dirette alle colonie dovessero essere di produzione britannica, o almeno trasbordate presso un porto britannico; c) tutte le esportazioni delle colonie, salvo poche eccezioni, dovessero, come prima destinazione, essere inviate direttamente in Gran Bretagna. In questo modo il governo britannico poté essere certo di ottenere cospicue entrate doganali, i manufatti nazionali ebbero un mercato garantito, i commercianti, i carpentieri e gli armatori ebbero un lavoro sicuro e un profitto derivante dalla situazione di monopolio in cui operavano, e la bilancia nazionale dei pagamenti fu sostenuta dalle massicce riesportazioni di prodotti coloniali in Europa. Queste restrizioni furono in seguito denunciate, da Adam Smith e da altri economisti liberali, come grossi ostacoli alla creazione di ricchezza, tanto nelle colonie quanto nella madrepatria. L'analisi successiva ha messo in dubbio la validità assoluta di questo giudizio, evidenziando tra l'altro che gli effetti del mercantilismo variavano ampiamente a seconda della capacità dello Stato colonizzatore di assistere adeguatamente le proprie colonie. Nel corso del XVIII secolo le colonie spagnole e portoghesi risentirono incontestabilmente del declino economico dei loro padroni europei, i quali si limitavano a raccogliere gran parte dei proventi del commercio coloniale (estorcendo anche denaro con le imposte dove possibile), senza però riuscire a garantire alle proprie colonie i mercati e le esportazioni di cui necessitavano. All'altro estremo, le colonie britanniche beneficiavano del fatto che la Gran Bretagna offriva in ogni caso il miglior mercato e i migliori servizi commerciali disponibili in Europa, anche se il regime monopolistico cui erano sottoposte abbassava i prezzi dei prodotti d'esportazione e innalzava quelli delle merci importate. Il carattere delle economie coloniali, in ogni caso, era ovunque determinato dalla dotazione di fattori produttivi e dalle iniziative imprenditoriali dei coloni, elementi che avrebbero potuto essere ben poco diversi da quello che in realtà furono, anche se si fossero sviluppati in un mondo libero da restrizioni commerciali. c) Metodi di governo Le forme di governo, le leggi e le istituzioni delle prime colonie americane, contrariamente a quelle di molti paesi caduti più tardi sotto la dominazione europea, erano molto simili a quelle degli Stati fondatori. I coloni conservavano non solo la propria nazionalità e i diritti fondamentali, ma anche il dovere di obbedienza al proprio sovrano. Gli Stati assolutistici - Portogallo, Spagna e Francia - governavano le proprie colonie attraverso istituzioni modellate su quelle della madrepatria, che non permettevano ai coloni di assumere alcuna importante funzione di governo, a meno che non ricoprissero cariche ufficiali. I governatori e i vari consigli detenevano un potere pressoché assoluto, limitato solo dalla legge e dalla supervisione della madrepatria. I possedimenti olandesi erano amministrati autocraticamente da agenti della Compagnia delle Indie Occidentali. Soltanto nelle colonie inglesi vigeva una sorta di autogoverno. In parte perché erano state tutte fondate da società autorizzate o da singoli proprietari, ma soprattutto perché la legge inglese conferiva ai coloni il diritto di stabilire autonomamente le imposte, tutte le colonie avevano assemblee rappresentative e governi locali elettivi. Di conseguenza queste colonie si abituarono subito ad amministrare autonomamente i propri affari, e questa fu la ragione principale per cui, dopo il 1763, si opposero alla crescente interferenza britannica e alla fine combatterono fino a ottenere l'indipendenza. 3. La colonizzazione moderna, 1763-1945 a) La prima decolonizzazione e la riorganizzazione degli imperi, 1763-1820 Nei sessant'anni successivi al 1763 si verificò la prima svolta importante nella colonizzazione europea. Fino a quel momento il processo era sembrato continuo e destinato a protrarsi indefinitamente: le colonie già esistenti sarebbero rimaste nella loro condizione di colonie; i loro confini si sarebbero ampliati; altre parti del globo sarebbero progressivamente cadute sotto il controllo europeo. Eppure già negli anni venti del XIX secolo il quadro era mutato completamente: la maggior parte dell'America era formata da Stati indipendenti e la Gran Bretagna possedeva l'unico grande impero d'oltremare, il cui centro si era spostato in Asia. Il processo di decolonizzazione - o, più precisamente, di trasferimento del potere, poiché le ex colonie rimanevano per molti aspetti sotto l'egemonia culturale ed economica europea - fu per più ragioni sorprendente e imprevedibile. Contrariamente alla maggior parte delle colonie fondate successivamente, nelle quali gli Europei non erano che una minoranza straniera e i cui abitanti avevano pochi legami culturali e storici con la madrepatria, le colonie americane si erano sempre considerate parte integrante della madrepatria: la loro lealtà nei suoi confronti era profonda. È dunque necessario scoprire cosa avvenne, in quegli anni, di così importante da indebolire quei legami e da indurre le colonie a chiedere l'indipendenza. Le colonie britanniche furono le prime a rivendicare l'indipendenza, nel 1776, e le prime a ottenerla dopo sette anni di guerra, nel 1783. La ragione di fondo della loro ribellione fu che dopo il 1763, soprattutto per le conseguenze delle guerre combattute contro Francia e Spagna, gli Inglesi tentarono di imporre negli affari coloniali un grado di controllo senza precedenti. Al fine di reperire i fondi necessari a mantenere un esercito regolare permanente nel Nordamerica, essi imposero nuove tasse, in particolare la stamp tax (tassa di bollo) del 1765. Per ottenere che le leggi sulla navigazione venissero rispettate, fecero ricorso alla flotta e istituirono nuovi tribunali. Alle lamentele avanzate dalle colonie risposero con una combinazione di concessioni e di restrizioni ancora più dure. La politica interna delle colonie giocò un ruolo importante, ma alquanto complesso: alla fine gli Inglesi furono indotti, dai loro oppositori nelle colonie, soprattutto nel Massachusetts, a ricorrere alla forza militare; si trattò di un passo avventato, che consentì alla minoranza di radicali di ottenere il sostegno della maggioranza. Gli Inglesi avrebbero potuto uscire vincitori dalla guerra che ne risultò, se avessero combattuto in modo più intelligente; ma non lo fecero e, con un decisivo aiuto da parte dei Francesi, i coloni riuscirono a spuntarla. Il trattato di pace del 1783 riconobbe l'indipendenza sovrana delle tredici colonie continentali, che si unirono a formare gli Stati Uniti, lasciando alla Gran Bretagna il Quebec (tolto alla Francia nel 1763), le cosiddette province marittime e le sue isole dei Caraibi. Le prime a seguire l'esempio delle colonie inglesi furono le colonie spagnole. A partire dagli anni sessanta del XVIII secolo, molte di esse si erano sviluppate rapidamente e la Spagna aveva mitigato alcune delle più oppressive restrizioni economiche. Le idee libertarie provenienti dagli Stati Uniti esercitavano una certa influenza, ma la maggioranza dei coloni appariva soddisfatta della dominazione spagnola e così, nel 1806, i tentativi di invasione del Venezuela e di Buenos Aires da parte di elementi nazionalisti appoggiati dalla flotta britannica furono respinti dai lealisti locali. La svolta decisiva avvenne con l'occupazione della Spagna da parte di Napoleone, nel 1808, e con la forzata abdicazione del re Carlo IV in favore di Giuseppe Bonaparte. Le colonie spagnole rimasero fedeli a Carlo, ma fino all'effettiva ascesa al trono, nel 1814, del suo erede, Ferdinando VII, dovettero provvedere a se stesse. L'esperienza di questo periodo di autonomia, unita alla libertà commerciale senza precedenti di cui godettero nei loro traffici con il resto del mondo, provocò la svolta. Anche se tutte le colonie americane della Spagna, eccettuata l'Argentina, acconsentirono a ritornare sotto la giurisdizione imperiale dopo il 1814, esse non erano preparate ad accettare in tutto il suo rigore il controllo che la restaurata monarchia e il Parlamento spagnoli cercarono di imporre. La resistenza, comunque, non fu né uniforme né generalizzata: permaneva ancora un forte spirito lealista. Ma si erano ormai costituiti gruppi di pressione e nuclei di guerriglieri che combattevano per l'indipendenza. Costoro, nel corso del decennio compreso tra il 1814 e il 1824, incoraggiati anche da quanto andavano sostenendo gli Inglesi, e cioè che i Francesi non avrebbero fornito al governo spagnolo alcun aiuto militare o navale, riuscirono infine a sconfiggere l'inadeguato esercito spagnolo e i lealisti locali. Gli Inglesi furono premiati per la solidarietà manifestata: queste colonie divennero estremamente dipendenti dalla Gran Bretagna per quel che riguardava la protezione militare, i traffici commerciali e gli investimenti di capitali. Il trasferimento dei poteri significò, per le colonie spagnole, il passaggio da una subordinazione formale alla Spagna a una dipendenza informale dalla Gran Bretagna e in seguito dagli Stati Uniti. Il caso del Brasile fu per molti versi analogo a quello delle colonie spagnole. Il Portogallo venne occupato dai Francesi nel 1807 e la famiglia reale portoghese trasferì la capitale a Rio de Janeiro, che pertanto diventò il centro dell'impero portoghese e prosperò grazie a una libertà di commercio con i paesi d'oltremare fino a quel momento sconosciuta. Anzi, persino dopo la liberazione di Lisbona, nel 1811, il reggente, Don Giovanni, preferì rimanere a Rio, cosicché il Portogallo divenne in un certo senso una dipendenza del Brasile. Nel 1815 il Brasile fu dichiarato 'regno fratello' del Portogallo, senza alcuna subordinazione a esso. Dopo la rivoluzione portoghese del 1820, Giovanni, divenuto re nel 1816, dovette tornare a Lisbona lasciando suo figlio Pedro reggente del Brasile. Il resuscitato Parlamento portoghese (Cortes), liberale in patria, si rivelò illiberale oltreoceano: al pari delle Cortes spagnole, tentò di far tornare il Brasile in una posizione subordinata, con la conseguenza che i gruppi repubblicani e lealisti di Rio si coalizzarono, il rapporto privilegiato col Portogallo venne interrotto e Pedro fu incoronato imperatore del Brasile. La separazione formale fu riconosciuta dal Portogallo nel 1825 in seguito all'arbitrato britannico, anche se la famiglia reale non si divise sino al 1828. Il Brasile rimase una monarchia sotto la medesima famiglia dei Braganza sino a quando, nel 1889, non divenne una repubblica. Ma se il periodo successivo al 1763 segnò l'imprevista fine del dominio europeo nell'America continentale, esso vide anche l'inizio di un'opera di colonizzazione su larga scala negli altri continenti, e in particolare lo smisurato ampliamento dei possedimenti britannici. Due processi erano in atto in quegli anni: il trasferimento delle colonie, durante e dopo i periodi di guerra tra le nazioni europee, dalle mani degli Stati sconfitti in quelle degli Stati vincitori e l'allargamento della sfera d'influenza dell'Europa su regioni che prima non si trovavano sotto il suo diretto controllo. Tutto ciò, unitamente alla perdita delle colonie americane, condusse alla creazione di un impero europeo di tipo sostanzialmente nuovo, il cui centro di gravità era situato nell'Oceano Indiano e in cui la maggior parte dei sudditi non erano europei. Il primo di questi due processi fu innescato dalle guerre combattute tra il 1756 e il 1763 e tra il 1793 e il 1815. Come risultato delle prime, la Gran Bretagna tolse i possedimenti nordamericani e alcune isole dei Caraibi alla Francia, nonché la Florida alla Spagna. Le conseguenze delle guerre combattute a partire dal 1793 furono ancora più rilevanti: per quanto riguarda i possedimenti occidentali, la Gran Bretagna tolse la Guiana all'Olanda e Trinidad alla Spagna; tali annessioni, a differenza di altre, non trasformarono però radicalmente il carattere dell'impero. Nel 1815 la Gran Bretagna acquisì anche i possedimenti olandesi del Capo di Buona Speranza, di Ceylon e della Malacca - rafforzando in tal modo la propria linea di comunicazione con l'Oriente - e tolse l'isola Maurizio alla Francia. Altri territori olandesi e francesi occupati nel corso delle varie guerre dovettero essere restituiti alla firma della pace, ma in un sol colpo la Gran Bretagna aveva trasformato un impero di lingua inglese in un impero poliglotta, che non poteva più essere governato secondo i tradizionali metodi britannici. Ciò condusse all'istituzione del sistema di autogoverno, sistema che divenne prevalente nel corso del XIX secolo. Anche questi eventi, tuttavia, risultano di secondaria importanza a paragone di quelli che si verificarono in India. Verso la metà del XVIII secolo, la Compagnia inglese delle Indie Orientali era ancora una semplice impresa commerciale, assai simile a com'era al momento della sua nascita (risalente al XVII secolo) e alle analoghe compagnie francesi e olandesi. Essa operava da tre basi principali - Calcutta, Madras e Bombay -, ognuna delle quali costituiva una postazione commerciale fortificata, del tipo di quelle portoghesi. Ma intorno al 1820 la Compagnia deteneva il potere in circa la metà del subcontinente indiano e controllava i governanti indigeni della rimanente metà, fino alle frontiere del Punjab. Come e perché si sia verificata questa trasformazione rimane tuttora una questione ardua e dibattuta. Semplificando i termini del problema si possono avanzare due spiegazioni. La prima è la seguente: il declino dell'effettivo controllo esercitato dagli imperatori moghūl sui governanti di quelle che in teoria erano ancora province imperiali, ma che in realtà si stavano rapidamente trasformando in Stati autonomi, si tradusse in un'endemica instabilità politica che rese sempre più rischiose le normali attività commerciali. Per sopravvivere in queste condizioni, la Compagnia doveva essere in grado di difendersi con le proprie forze, il che implicò sia l'ampliamento dei suoi possedimenti territoriali che la stipulazione di alleanze con i governanti indiani. La presenza dei Francesi e degli Olandesi (alleatisi dopo il 1793) complicò ulteriormente la situazione, dal momento che la guerra combattuta in Europa si estese anche all'India. La Compagnia poté quindi conservare la propria posizione in India soltanto sconfiggendo i Francesi e i loro alleati indiani, e resistendo nello stesso tempo ai tentativi compiuti da alcuni governanti locali, come il viceré del Bengala, di ridurre o addirittura annullare le sue prerogative. In base a questa interpretazione, la compagnia britannica fu costretta dalla situazione determinatasi in India nella seconda metà del XVIII secolo ad assumere un atteggiamento di belligeranza e a espandersi territorialmente. La spiegazione alternativa, anche se in assoluto non incompatibile con la precedente, pone l'accento con molta più enfasi sulla cupidigia della Compagnia e dei suoi rappresentanti in India. Il declino del potere dei Moghūl creò sia nuove opportunità sia pericoli. Se la Compagnia fosse riuscita a guadagnare il controllo di territori più vasti, avrebbe potuto riscuotere le tasse che normalmente venivano versate ai governanti locali o all'imperatore; questi nuovi introiti avrebbero potuto, come minimo, coprire le spese generali che gravavano pesantemente sugli utili derivanti dalle sue operazioni commerciali. Nella migliore delle ipotesi, poi, la riscossione delle tasse avrebbe potuto rivelarsi un'attività più remunerativa del commercio. Ai singoli funzionari della Compagnia, molti dei quali si dedicavano a traffici privati e a prestiti monetari, un accresciuto potere politico della Compagnia avrebbe potuto fornire maggiori opportunità di profitti personali: i governanti indiani avrebbero potuto essere indotti a pagare per ottenere favori e i funzionari della Compagnia avrebbero potuto istituire monopoli commerciali. La conquista, per di più, avrebbe arrecato un grande prestigio e aumentato le opportunità di controllo amministrativo. Secondo questa interpretazione l'espansione britannica in India presenta una stretta somiglianza con la conquista spagnola del Messico e del Perù, per il fatto che in entrambi i casi gli attori principali furono individui in cerca di guadagni e di fama e perché il risultato fu il saccheggio di un subcontinente per profitto personale. Di fatto, entrambe le interpretazioni presentano molti aspetti validi. La Compagnia dovette sicuramente combattere per sopravvivere e col passare del tempo finì per acquisire il controllo dapprima del Bengala, poi gradualmente, intorno al 1820, della maggior parte dell'India. Durante questo processo di espansione, i suoi funzionari sfruttarono ogni opportunità per realizzare il proprio tornaconto, e quelli tra loro che ottennero maggior successo, come Robert Clive, il vincitore della decisiva battaglia di Plassey, combattuta nel 1757 contro le truppe del viceré del Bengala, divennero immensamente ricchi e fecero ritorno in patria da 'nababbi'. Tuttavia, quando la fase della conquista militare e i primi saccheggi ebbero termine, si presentò agli Inglesi il problema di rimpiazzare quei governi che avevano appena spodestato. Negli anni settanta del XVIII secolo la prospettiva era che il nuovo governo sarebbe stato corrotto e sfruttatore, ma la classe politica britannica si dimostrò pronta a farsi carico, per la prima volta nella storia moderna, delle implicazioni morali della conquista: il governo britannico raggiunse a poco a poco un pieno controllo sulle attività svolte dalla Compagnia e si impegnò ad avviare riforme fondamentali. Nel 1820 la Compagnia aveva cessato qualsiasi attività commerciale in India (nonostante conservasse i suoi traffici con la Cina) ed era diventata un ente amministrativo i cui funzionari raggiunsero gradualmente un elevato livello di moralità pubblica. L'India fu divisa in due parti: quella britannica, direttamente amministrata da funzionari inglesi, che governavano attraverso subalterni indiani, e i regni sopravvissuti, cui fu lasciata una larga autonomia, sebbene fossero obbligati, con un trattato, a pagare contributi alla Compagnia e a comportarsi in modo conforme ai suggerimenti dei 'residenti' della Compagnia stessa presso le loro corti. Nel 1820, dunque, il modello del dominio britannico, quale si è poi conservato fino al XX secolo, trovò la sua forma definitiva, anche se venne continuamente modificato nei particolari, e nel 1858 la Compagnia fu sostituita dalla diretta autorità britannica in seguito alla rivolta dell'anno precedente. La creazione, in Asia, di questo impero territoriale britannico, che fu emulata su scala ridotta dalla graduale estensione dell'autorità olandese su Giava, rappresentò l'evento più importante nella storia della colonizzazione europea a partire dal XVI secolo. Ma intorno al 1820 si era verificato un nuovo sviluppo della situazione, che si dimostrò gravido di conseguenze. Nel 1788 gli Inglesi avevano istituito una colonia penale a Botany Bay, nell'Australia sudorientale. Essi si proponevano forse anche altre finalità, ma il loro obiettivo primario era semplicemente quello di trovare un posto che sostituisse le colonie americane come luogo di reclusione lontano dalla madrepatria. Intorno al 1820 questo piccolo insediamento cominciò a evolversi in una versione moderna degli originari insediamenti coloniali americani del XVII secolo: liberi cittadini britannici, ivi immigrati, incominciarono a costituire una vera e propria società coloniale. Con il resto di quell'immenso continente a disposizione per una futura espansione, con la Nuova Zelanda a circa 1.900 chilometri di distanza, anch'essa da conquistare, vi erano tutte le premesse perché avesse inizio una nuova fase di colonizzazione. b) La pax britannica, 1820-1880 Non v'è dubbio che i sessant'anni successivi al 1820 furono il periodo in cui la parola 'colonizzazione' divenne quasi sinonimo di 'impero britannico'. Altri Stati conservarono le proprie colonie, ma nessuno di essi riuscì ad aggiungere qualcosa di significativo a ciò che già possedeva nel 1815, anche se i Francesi acquisirono alcune isole del Pacifico, la Cocincina e alcune basi nell'Africa occidentale, e gli Olandesi continuarono a rafforzare il loro controllo sull'arcipelago indonesiano. Soltanto gli Inglesi prolungarono la fase espansiva vera e propria; eppure lo fecero, in un certo senso, con riluttanza e solo quando si realizzarono delle condizioni particolari. In Gran Bretagna si era diffusa l'opinione che, una volta abbandonato il regime protezionistico e decadute le leggi sulla navigazione - processo che fu completato intorno al 1850 - non si sarebbe tratto più alcun vantaggio particolare dal possesso delle colonie; queste, anzi, avrebbero rappresentato un peso, sarebbero in molti casi diventate troppo dispendiose da difendere e da amministrare e, una volta abilitate al commercio con altri paesi, non avrebbero procurato alcun beneficio particolare all'economia britannica. Questo atteggiamento 'antimperialistico' si rivelò dominante a tal punto che gli Inglesi ignorarono un numero elevatissimo di opportunità di annessioni territoriali in molte zone dell'Africa, del Pacifico e dell'Asia sudorientale. Comunque, questa forma di astensione non fu osservata in tutte le circostanze, e in questo periodo gli Inglesi si orientarono verso tre tipi principali di nuova colonizzazione. In primo luogo, si ebbe un'annessione - giustificata da motivi di sicurezza - di territori confinanti coi possedimenti già acquisiti. Ciò portò al progressivo ampliamento dei confini dell'India britannica finché, intorno alla metà degli anni ottanta del XIX secolo, essa giunse a estendersi da Capo Cormorano, a sud, sino ai confini dell'Afghanistan a nordovest, comprendendo anche la Birmania, a nordest. Per ragioni analoghe, ma più complesse, anche la penisola della Malesia stava a poco a poco passando sotto un'informale influenza britannica tramite trattati stipulati con i suoi sultani. In secondo luogo, alcuni territori molto più piccoli furono annessi per motivi commerciali, per garantire la necessaria sicurezza ai traffici con le contigue regioni indipendenti. I tre principali territori di questo tipo sono Hong Kong, un'isola di pescatori primitivi, annessa nel 1842, dopo le cosiddette guerre dell'oppio con la Cina, per dare ai mercanti britannici una sicurezza maggiore di quella che poteva garantire loro la vicina Canton, che nel passato era stata il loro più importante centro commerciale nella regione; Singapore, un'altra isola di pescatori al largo di Johore, presa nel 1819 come base per commerciare da un capo all'altro dell'arcipelago indonesiano; Lagos, annessa nel 1861 per un insieme di ragioni ma soprattutto per facilitare i traffici. Il terzo tipo di nuova colonizzazione, ovvero la creazione o l'estensione di insediamenti di coloni britannici, fu il più caratteristico di questo periodo. Negli anni settanta del XIX secolo la Gran Bretagna aveva annesso tutta l'Australia e la Nuova Zelanda; le colonie nordamericane dell'est erano state unite alla Columbia britannica, a ovest, a formare il Dominion del Canada, estendentesi da una costa all'altra; nell'Africa meridionale il piccolo insediamento di Città del Capo si era allargato nell'entroterra e lungo la costa fino al Natal, mentre più a nord vi erano alcuni Stati semindipendenti abitati dai Boeri. Questi nuovi insediamenti di coloni costituirono un fatto unico nel XIX secolo, in quanto rappresentarono un revival della spinta alla colonizzazione tipica del XVI e XVII secolo. Essi rispecchiavano l'incremento della popolazione britannica (benché la maggior parte degli emigranti andasse negli Stati Uniti), ma anche la ricchezza di una Gran Bretagna in via di industrializzazione, che forniva il capitale necessario al rapido sviluppo di queste nuove colonie. Un importante elemento di novità fu dato dal fatto che intorno agli anni sessanta del XIX secolo quasi tutti questi nuovi insediamenti erano pervenuti a un grado di autogoverno (conosciuto come 'governo responsabile') senza precedenti nella storia della colonizzazione moderna; essi gestivano autonomamente quasi tutti i propri affari interni, pur rimanendo sotto la sovranità e la protezione britanniche. In questo modo furono poste le basi per la successiva formazione del Commonwealth. c) Il 'nuovo imperialismo', 1880-1914 Nei primi anni settanta del XIX secolo, la maggioranza degli Europei riteneva probabilmente che l'età della colonizzazione fosse ormai conclusa. La maggior parte dell'Africa e del Pacifico nonché alcune regioni dell'Asia non avevano mai conosciuto la dominazione europea ed erano in un certo senso aperte alla colonizzazione; ma, in un periodo in cui il libero scambio sembrava essere ancora in fase ascendente e questi territori indipendenti sembravano aprirsi sempre di più al traffico commerciale, agli investimenti e all'attività missionaria, non si vedevano molte ragioni per una nuova ondata di colonizzazioni. Ecco perché gli storici dell'epoca e quelli successivi trovarono così sorprendente la virtuale divisione del mondo tra le potenze europee, gli Stati Uniti e il Giappone, pattuita dopo il 1880 circa (un po' come se oggi si ricolonizzasse l'Africa). Di qui il concetto di 'nuovo imperialismo', introdotto per spiegare ciò che accadde. Non è stato ancora raggiunto un consenso unanime sulle ragioni che hanno portato a questa nuova fase di colonizzazione, e in effetti non esiste una spiegazione unica o semplice. Tutti i tentativi di interpretazione devono individuare uno o più elementi nuovi che, emersi negli anni successivi al 1880, rovesciarono le tendenze allora in atto. In generale questi elementi rientrano in tre categorie: mutamenti di carattere economico, mutamenti di carattere politico, in Europa e in Nordamerica, e mutamenti nella situazione dei territori appena annessi. La spiegazione in termini economici viene formulata in modi differenti, a seconda delle diverse opinioni sullo sviluppo economico e sociale dell'Europa; ma essa poggia invariabilmente sull'affermazione che, nel momento in cui l'Occidente si è industrializzato, si è trovato a dipendere sempre di più da altre parti del mondo. La sovrapproduzione di prodotti industriali richiedeva l'apertura di nuovi mercati, i capitali eccedenti dovevano essere investiti con profitto, le industrie in espansione necessitavano di materie prime a basso costo, che non erano disponibili nelle regioni temperate del globo. Poiché i territori che avrebbero potuto soddisfare questi bisogni non erano molti, ognuna delle maggiori potenze temeva che le altre potessero rompere gli indugi e rivendicare l'esclusivo possesso di regioni fino a quel momento aperte a tutti. Il risultato fu lo scatenarsi di una lotta per accaparrarsi i territori migliori. La seconda spiegazione di carattere generale della nuova situazione pone più l'accento sulle condizioni politiche esistenti verso la fine del XIX secolo. La nascita di nuovi Stati molto potenti, come la Germania, e l'emergere di altri, come l'Italia e il Giappone, stavano a indicare che la situazione internazionale era ben più complessa e aperta alla competizione di quella in atto dal 1815 al 1880. Gli Stati nazionali erano ansiosi di difendere la propria reputazione e timorosi di perdere prestigio; di conseguenza problemi di scarsa importanza, nati da conflitti o competizioni in altri continenti, venivano trattati alla stregua di importantissime questioni diplomatiche, potenziali cause di guerra. L'opinione pubblica poteva essere facilmente infiammata su tali questioni attraverso i nuovi giornali popolari; i politici e gli ambienti militari potevano sfruttare questo 'sciovinismo'. Il 'nuovo imperialismo', dunque, fu l'espressione - per ciò che riguardava i territori d'oltremare - di quella stessa forma aggressiva di nazionalismo che condusse alla prima guerra mondiale. Non vi è alcun dubbio che entrambe queste spiegazioni contengano una parte di verità; il lato debole comune a entrambe è che non spiegano nei particolari la cronologia o la configurazione geografica della colonizzazione. Per questo motivo, tali spiegazioni 'eurocentriche' hanno bisogno di essere affiancate da spiegazioni 'periferiche', incentrate cioè sulle circostanze e sugli eventi verificatisi nei territori colonizzati in quel periodo. La chiave di tale impostazione 'periferica' sta nel fatto che, durante gli anni ottanta del XIX secolo, l'intrusione degli Europei e degli Americani nelle regioni meno sviluppate del mondo ne mise in crisi la stabilità economico-politica. Alcuni Stati, come la Tunisia, l'Egitto e il Marocco, si erano indebitati oltre misura; altri, nell'Africa occidentale e nel Pacifico, non riuscirono a mantenere la propria autorità di fronte ai numerosi mercanti, cercatori d'oro, missionari e coloni stranieri sopraggiunti. La competizione tra stranieri rivali non fece che peggiorare le cose. I vari Stati europei, pertanto, si videro costretti a intervenire per ristabilire l'ordine o proteggere i propri interessi, e il timore che uno Stato potesse ottenere troppi benefici a spese degli altri portò ovunque allo stesso tipo di soluzione. In breve, l'Africa, alcune zone dell'Asia sudorientale e alcune zone del Pacifico furono colonizzate dopo il 1880 sia al fine di renderle sicure per le imprese commerciali europee, sia al fine di garantire un certo equilibrio tra le opportunità offerte ai cittadini di ciascuna delle grandi potenze. Forse l'aspetto più sorprendente dell'intero processo fu il fatto che la spartizione di questi territori ebbe luogo senza alcun conflitto militare tra le potenze, ma anzi con relativa facilità. Uno dei motivi per cui ciò avvenne fu che i negoziati, condotti nel periodo critico della fine degli anni ottanta, furono dominati da due diplomatici di grande esperienza e buonsenso: lord Salisbury per la Gran Bretagna e il cancelliere Bismarck per la Germania. Dopo la destituzione di quest'ultimo, avvenuta nel 1890, l'imperialismo tedesco divenne pericolosamente aggressivo. Un'altra, e probabilmente più importante ragione, fu che in questa prima fase gli Europei avevano una conoscenza molto approssimativa delle regioni che ambivano controllare, soprattutto di quelle africane; in un certo senso essi non stavano facendo molto di più che tracciare delle linee sulle carte geografiche per indicare le zone in cui i cittadini di ciascuno Stato europeo avrebbero ricevuto un trattamento preferenziale nel caso avessero deciso di impiantarvi un'attività commerciale, di dedicarsi a ricerche minerarie, ecc. Il fatto che tutti i nuovi possedimenti tedeschi e la maggior parte di quelli britannici fossero protettorati piuttosto che vere e proprie colonie rispecchiava la grande incertezza intorno al loro futuro a più lungo termine: un protettorato poteva essere abbandonato o scambiato abbastanza facilmente. Né fu chiaro, ancora per un lungo periodo, quale valore effettivo avessero i vari territori, o quali problemi la loro occupazione avrebbe causato alle potenze imperiali. È alquanto paradossale che l'entusiasmo per i nuovi possedimenti sia andato aumentando col tempo, anche se ci si rese ben presto conto che il valore economico di molti di essi era scarso e che i costi e le difficoltà inerenti alla loro amministrazione erano molto grandi. Comunque il processo di colonizzazione attuato dopo il 1880 completò la formazione dei moderni imperi coloniali, conferendo loro l'aspetto che, salvo piccole modifiche, mantennero fino all'era della decolonizzazione. Tali imperi furono in parte rimaneggiati, vi si aggiunsero nuove colonie dopo il 1914, e questa divisione del mondo produsse un nuovo ordinamento mondiale. Precedentemente le sole colonie in cui gli Europei controllavano i destini di un gran numero di extraeuropei erano l'India e Giava. Ora, invece, la maggior parte dei possedimenti era di questo tipo, e ciò segnò la nascita di quel colonialismo che si è protratto fino alla prima metà del XX secolo: 'colonizzazione' divenne sinonimo di 'subordinazione'. Pertanto il processo di decolonizzazione, quando ebbe luogo, significò il rifiuto di questa subordinazione da parte dei popoli dell'Africa, dell'Asia e del Pacifico da poco assoggettati. d) L'ultima fase di espansione coloniale e la successiva ripartizione, 1914-1945 Prima della decolonizzazione, dunque, si ebbe un ultimo periodo di colonizzazione, la quale assunse due forme: una parziale redistribuzione delle dipendenze imperiali già esistenti e l'annessione di nuove colonie da parte di quei paesi che si erano lasciati sfuggire l'occasione di partecipare alla precedente spartizione. La redistribuzione delle colonie fu il risultato della prima guerra mondiale. Gli alleati occidentali avevano occupato tutte le colonie tedesche d'oltremare ed erano decisi a non restituirle; esse vennero spartite tra Gran Bretagna, Sudafrica, Australia, Nuova Zelanda, Francia, Belgio e Giappone, ma in qualità di mandati avuti in affidamento dalla Società delle Nazioni (che manteneva un ruolo di controllo), non come possedimenti a pieno titolo. La Gran Bretagna e la Francia avevano anche occupato ciò che rimaneva dei territori ottomani in Arabia, mentre, nel 1914, sempre la Gran Bretagna aveva ufficialmente dichiarato suo protettorato l'Egitto, che formalmente era ancora un possedimento ottomano nonostante fosse stato occupato dagli Inglesi sin dal 1882. Dopo lunghe contrattazioni, alla Francia andarono la Siria e il Libano, alla Gran Bretagna l'Iraq, la Transgiordania e la Palestina, tutti come mandati, mentre, nel 1922, l'Egitto cessò di essere un protettorato britannico e divenne formalmente uno Stato sovrano, pur concedendo alla Gran Bretagna, tramite un trattato, ampie servitù militari e diritti d'altro genere. Per le principali potenze coloniali questo periodo segnò l'acme del processo di colonizzazione, superato il quale il clima morale dell'Europa occidentale divenne sempre più ostile all'idea di un'ulteriore espansione territoriale e, anche se non ci si preoccupava ancora seriamente di trovare una giustificazione etica al possesso delle colonie, si fece in modo di amministrarle onestamente. Ma vi erano almeno due altri Stati (Italia e Giappone) i quali, pervenuti al rango di potenze di prim'ordine troppo tardi per partecipare alla precedente spartizione, ritenevano di avere anch'essi il diritto a un proprio impero coloniale. L'Italia aveva cercato, dopo il 1880, di costituire un impero nell'Africa settentrionale e nordorientale, era riuscita a occupare la Tripolitania e la Cirenaica nel 1912 e nel corso degli anni trenta aveva compiuto grandi sforzi - a un costo altissimo - per insediare in questi territori coloni italiani. Ma nel 1896 le forze italiane erano state sconfitte presso Adua, mentre cercavano di occupare militarmente l'Abissinia; tra il 1935 e il 1936 ritentarono l'impresa, questa volta con successo. L'Abissinia era membro della Società delle Nazioni, la quale però si rivelò incapace di assumere iniziative concrete. La pubblicità data alla campagna d'Africa e soprattutto l'uso dell'aviazione contro obiettivi civili contribuirono in larga misura a sollevare la coscienza liberale dell'Europa occidentale contro il colonialismo.Tutto ciò non ebbe alcun effetto sul Giappone, che aveva cominciato a darsi da fare per fondare un proprio impero sin dall'ultimo decennio del XIX secolo e non capiva il motivo per cui avrebbe dovuto rinunciarvi solo perché le potenze europee erano sazie di colonie. L'ambizione militare, i problemi economici degli anni trenta e il disordine politico in cui versava la Cina spinsero il Giappone a occupare la Manciuria, nel 1931, e a iniziare nel 1937 un violento attacco globale alla Cina, che sfociò in un'offensiva di proporzioni ancora più vaste verso il Sudest asiatico e il Pacifico. Tra il 1942 e il 1945, all'apice della sua espansione, l'impero giapponese comprendeva la Birmania, la Malesia, l'Indocina, gran parte della Cina, l'Indonesia, le Filippine e molte isole del Pacifico. La sua caduta nel 1945, per ironia della storia, annunciò la dissoluzione degli imperi di quegli Stati europei che reclamavano la restituzione dei propri territori da parte del Giappone. La metà degli anni quaranta segnò la fine di cinque secoli di colonizzazione europea. Nonostante fossero assai pochi coloro che in quegli anni seppero prevederlo, entro un paio di decenni il colonialismo occidentale poté dirsi virtualmente concluso. Perché l'opera compiuta in un periodo così lungo sia andata distrutta in un lasso di tempo così breve rappresenta uno dei principali problemi della storiografia moderna, che verrà affrontato in seguito (v. cap. 5). 4. Il carattere del colonialismo moderno L'effetto fondamentale del processo di colonizzazione sulle regioni e sulle società che lo subirono fu che venne loro sottratta la possibilità di decidere autonomamente il proprio destino. Ogni Stato sovrano possiede un suo centro direttivo e una sua volontà, incarnati dal governo centrale, dal complesso delle leggi, dalle consuetudini e dalle istituzioni. Entro i limiti fissati dalla sua estensione territoriale e dalla sua capacità di formulare e di realizzare scelte politiche, lo Stato è un agente libero. La caratteristica essenziale del colonialismo fu appunto quella di distruggere tale libertà di scelta. La sovranità - il fondamentale potere decisionale - veniva trasferita dal paese appena colonizzato alla capitale della madrepatria. Londra diventò l'effettiva capitale dell'India, Parigi dell'Algeria, L'Aia dell'Indonesia. La madrepatria poteva concedere un'ampia libertà di scelta e di azione alle colonie, interferendo raramente con la vita quotidiana dei suoi sudditi, ma si trattava soltanto di libertà elargite a delle province, concessioni e non diritti. Colonizzazione voleva dire subordinazione alla volontà e, fin dove era possibile, agli interessi dello Stato imperiale. Un allontanamento così drastico da quello che è comunemente considerato il naturale diritto dei popoli all'autodeterminazione era destinato ad avere, sulle società coloniali, ripercussioni profonde sia positive che negative; il dibattito circa il carattere del colonialismo moderno ruota intorno alla questione se siano stati di maggiore portata gli effetti benefici o quelli nocivi. Sarebbe impossibile in questa sede formulare un verdetto, anche soltanto provvisorio. Ci proponiamo invece di esaminare per sommi capi gli effetti della dominazione straniera in tre settori principali - governo, economia e società - e di considerare in ognuno di questi ambiti la sua portata per il futuro delle colonie dopo che queste divennero indipendenti. a) Forme di governo Per una potenza imperiale il problema fondamentale nel governare un impero era quello di mantenere nel modo migliore il controllo sui territori conquistati, senza al tempo stesso assumersi il peso delle minuzie dell'amministrazione locale. Essa doveva anche valutare quale fosse la maniera migliore per ottenere l'obbedienza dei suoi sudditi coloniali, poiché la stabilità dell'impero dipendeva, in ultima analisi, più dal consenso di questi che dalla potenza militare della madrepatria. La fisionomia del governo imperiale, dunque, presentava sempre due aspetti paralleli e potenzialmente incompatibili: l'accentramento nella madrepatria dell'autorità suprema, da un lato, e un certo grado di autonomia locale, dall'altro. Il diverso rapporto fra questi due aspetti distinse l'uno dall'altro i vari sistemi imperiali e influenzò pesantemente le capacità delle colonie di amministrare con successo i propri affari una volta conseguita l'indipendenza. Sui centri decisionali nella madrepatria c'è poco da dire. In ogni impero moderno l'autorità suprema era nelle mani del parlamento imperiale o di un'istituzione analoga deputata a emanare leggi vincolanti per tutte le colonie. All'atto pratico, queste assemblee delegavano gran parte del loro potere a un ministro appositamente nominato e al suo dicastero coloniale, i cui funzionari civili seguivano attentamente gli affari coloniali decidendo giorno per giorno il da farsi. Col passare del tempo, il modo in cui questi ministri concepivano la propria funzione si modificò radicalmente. Sino alla fine degli anni trenta tale funzione era soprattutto di supervisione; i ministri controllavano ciò che accadeva oltreoceano, verificavano lo stato delle finanze coloniali e passavano al vaglio le leggi promulgate dai consigli e dai corpi legislativi locali, ma raramente assumevano l'iniziativa di proporre essi stessi determinate politiche. Durante e dopo la seconda guerra mondiale, invece, influenzati dall'enorme aumento dell'intervento statale nelle questioni sociali ed economiche interne, questi ministri iniziarono ad assumere un ruolo molto più attivo nella gestione delle colonie, soprattutto nel campo dello sviluppo economico-sociale. Paradossalmente, l'intervento della madrepatria nella vita coloniale fu di gran lunga maggiore durante il ventennio che precedette la decolonizzazione di quanto non fosse mai stato prima. In effetti le due cose potrebbero essere collegate, poiché quella che è stata definita 'seconda occupazione coloniale', una volta che i sudditi delle colonie divennero più consapevoli dell'oppressione esercitata dall'autorità imperiale, potrebbe aver avuto l'effetto di stimolare in essi il desiderio di indipendenza. È molto più difficile operare generalizzazioni circa il tipo di governo nelle colonie, dal momento che ogni Stato imperiale adottò tecniche differenti, variandole a seconda delle diverse colonie. Molto in generale, gli Inglesi possono essere distinti da tutti gli altri per il fatto che la loro tradizione li portava a concedere la massima autonomia a ogni colonia e per il fatto che alcune di queste ebbero un governo pienamente rappresentativo; viceversa tutte le altre potenze imperiali trattarono le colonie come semplici province della madrepatria, concedendo loro una ridottissima libertà d'azione. Vi fu, tuttavia, una significativa somiglianza fra la condotta britannica nella maggior parte delle colonie tropicali e quella di altri imperi in territori dalle caratteristiche analoghe. La chiave del dominio coloniale britannico in epoca moderna sta nel fatto che la tradizione dell'autogoverno delle colonie attraverso assemblee liberamente elette, vigente in tutte le colonie inglesi d'America prima del 1763, continuò dopo la Rivoluzione americana e poté essere rivendicata dai coloni britannici come un diritto. A partire dagli anni quaranta del XIX secolo, questa tradizione ebbe un'ulteriore evoluzione dando luogo al 'governo responsabile'; ciò significava che nelle colonie nordamericane, come pure in Sudafrica, Australia e Nuova Zelanda, tutti gli affari interni venivano amministrati da un gabinetto responsabile nei confronti dell'assemblea rappresentativa locale. Nel 1919 questo criterio fu applicato anche alle relazioni internazionali e dal 1931 queste colonie (note sin dal 1907 come dominion) ottennero il diritto di dichiarare la loro indipendenza in qualità di Stati sovrani, anche se all'interno di quello che da allora fu chiamato il 'Commonwealth dell'impero britannico'. La peculiarità di questi dominion era ovviamente quella di essere abitati - o, almeno nel caso del Sudafrica, dominati - da coloni europei, e fu per questo motivo che essi vennero considerati aventi diritto a una forma così ampia di autogoverno: fino agli inizi del XX secolo si riteneva generalmente che i popoli extraeuropei assoggettati non dovessero rivendicare questi diritti e inoltre che non fossero in grado di amministrare i propri affari. Nonostante ciò, questo modello di autogoverno esercitò una notevole influenza su tutti gli altri possedimenti britannici. A un determinato livello, in ogni epoca, tutti i governi coloniali ebbero il pieno potere di emanare leggi locali (soggette alla supervisione imperiale) attraverso proprie assemblee legislative. Queste assemblee, inoltre, sebbene per lungo tempo dominate dal governatore e dai funzionari britannici più anziani, comprendevano di solito un certo numero di dignitari locali, europei o indigeni. Oltre a ciò, i sudditi coloniali consideravano il sistema del 'governo responsabile', e in seguito lo status di dominion, come loro legittimo obiettivo. Così, anche le colonie della Corona britannica non popolate prevalentemente da coloni della madrepatria erano aperte a una potenziale evoluzione del proprio ordinamento politico. Il governo coloniale britannico moderno presentava anche un altro aspetto caratteristico: preferiva impiegare, ovunque fosse possibile, i dignitari indigeni tradizionali come agenti e intermediari. Questa tendenza, approssimativamente espressa nel concetto di 'governo indiretto', si sviluppò soprattutto in India, i cui regni continuarono a essere governati - sebbene sotto la stretta sorveglianza britannica - dai maragià ereditari, fino al conseguimento dell'indipendenza. In forme differenti il governo indiretto fu adottato anche nell'Africa tropicale e nel Pacifico. Dal punto di vista dell'autorità imperiale, il suo grande pregio era quello di permettere ai governanti della madrepatria di servirsi del capo tradizionale, la cui autorità si aggiungeva alla loro, come di un 'cuscinetto' fra loro stessi e la massa della popolazione. Il suo limite principale, viceversa, consisteva nel fatto che questi 'collaboratori' tradizionali tendevano a essere conservatori piuttosto che progressisti: col trascorrere del tempo, aumentando il numero dei sudditi indigeni istruiti, il risentimento verso questi sistemi arcaici di governo crebbe con estrema rapidità. Nel 1947 gli Inglesi annunciarono formalmente che il governo indiretto sarebbe stato rimpiazzato da un governo elettivo locale: questo fu un importante passo avanti verso l'autogoverno democratico, soprattutto in Africa, e coincise con un rapido aumento del numero dei membri delle assemblee legislative eletti pur senza essere dei funzionari pubblici, al punto che tali assemblee divennero parlamenti veri e propri. Contrariamente alla Gran Bretagna, nessun'altra potenza imperiale fece affidamento sull'autonomia o sull'autogoverno delle colonie, benché molte di loro, in particolare l'Olanda, si servissero del governo indiretto ovunque potesse risultare conveniente. Tutte le colonie europee erano di fatto governate da un apparato burocratico straniero: le assemblee legislative, se istituite, avevano poteri assai ridotti. I Francesi permisero a pochissimi rappresentanti eletti nelle colonie fondate prima del 1789 di sedere nel parlamento della madrepatria, ma per tutte le colonie non britanniche l'introduzione di una rappresentanza generale, durante e dopo gli anni cinquanta del nostro secolo, equivalse a una vera e propria rivoluzione. L'importanza di questi sistemi di governo per il futuro politico delle colonie dopo la decolonizzazione fu enorme. A parte i dominion britannici, che, assieme all'India e a Ceylon, a cominciare dalla fine del XIX secolo fecero una lunga pratica di governo rappresentativo, nessuna colonia europea ebbe una vera esperienza di politica elettorale prima degli anni quaranta del nostro secolo: in molte di esse un regime pienamente democratico fu instaurato soltanto uno o due anni prima dell'indipendenza. Le conseguenze di questa mancata democratizzazione hanno segnato le vicende postcoloniali del Terzo Mondo. La politica è stata usata in primo luogo per allontanare le potenze imperiali e quindi per mettere in grado i primi uomini politici locali di utilizzare con successo le elezioni nazionali al fine di perpetuare il proprio potere personale; i partiti politici si sono configurati come coalizioni di gruppi regionali o etnici, preoccupati soprattutto di perseguire interessi di parte piuttosto che quelli generali del paese. La tradizione dominante ereditata dal passato coloniale è stata invece la burocrazia autocratica. Non è dunque sorprendente che, pochi anni dopo l'indipendenza, la grande maggioranza delle ex colonie africane, insieme a molte del Sudest asiatico, fosse governata da regimi monopartitici o militari; solo quegli Stati che, come l'India, la Malesia, Ceylon e la maggior parte delle Indie occidentali, avevano fatto una ragionevole esperienza di governi rappresentativi prima della decolonizzazione, sono poi riusciti a conservare un governo democratico parlamentare. Il fatto che le potenze imperiali non abbiano cercato seriamente di preparare all'autogoverno le proprie colonie quando avevano ancora il potere di farlo, costituisce probabilmente la colpa più seria del colonialismo. b) Economie coloniali Si è sempre pensato che una ragione fondamentale dell'esistenza degli imperi coloniali consistesse nel fatto che la madrepatria poteva ricavare particolari vantaggi economici dal possesso delle colonie. Questo è stato il cavallo di battaglia di tutti coloro che, interessati all'acquisizione di nuovi territori, cercavano di giustificare i costi che l'operazione comportava. In epoca recente i critici del capitalismo imperialistico occidentale hanno sviluppato elaborate argomentazioni per dimostrare che il colonialismo condusse a una radicale modificazione della vita economica delle colonie. In ogni caso l'asserzione fondamentale è che le potenze imperiali, essendo relativamente più sviluppate (soprattutto in campo industriale), avevano bisogno delle colonie in quanto mercati per le loro esportazioni, fonti di materie prime e di prodotti alimentari a basso costo, e aree in cui investire i loro capitali eccedenti. Una volta raggiunta la supremazia politica, gli Stati imperialistici furono in grado di procedere alla ristrutturazione delle economie coloniali per andare incontro a queste esigenze. Il risultato complessivo fu che le colonie del Terzo Mondo divennero parte di una 'periferia' rispetto al 'centro' costituito dagli Stati occidentali. Poiché questi ultimi erano industrializzati, le colonie furono costrette a rimanere ferme a un'economia puramente agricola e le loro industrie vennero distrutte dalla forzata esposizione alla concorrenza estera. Dato che le potenze imperiali avevano bisogno di alcuni tipi di prodotti agricoli e di minerali, le economie coloniali furono obbligate a specializzarsi in questi settori, a prescindere dai loro effettivi interessi. Nello stesso tempo i capitalisti occidentali riuscirono a fare investimenti in ogni campo in cui intravedevano ampi margini di profitto, con il risultato che, al momento dell'indipendenza, le 'leve del comando' dell'economia coloniale erano nelle mani di multinazionali estere. Il colonialismo, dunque, fu soprattutto responsabile dell'eccesso di specializzazione e della povertà di quasi tutte le ex colonie, e la decolonizzazione giunse solo quando, e in quanto, il capitalismo occidentale si convinse che il processo di ristrutturazione delle economie coloniali in base ai suoi interessi era giunto a un punto così avanzato che persino l'indipendenza non avrebbe più potuto invertirlo. Queste affermazioni suggeriscono due interrogativi: con quali strumenti le potenze imperiali orientarono la vita economica delle colonie in base ai propri interessi? quanta parte di vero c'è nell'asserzione che la povertà del Terzo Mondo è soprattutto conseguenza del colonialismo? Le potenze imperiali fecero ricorso a due metodi alternativi per assicurarsi che la madrepatria ricavasse i massimi benefici dalle colonie. Il primo sostanzialmente riprendeva le tecniche già adottate nella prima fase della colonizzazione moderna, era cioè una sorta di mercantilismo. Sebbene dopo la metà del XIX secolo nessun impero mantenesse in tutto il suo rigore il monopolio commerciale instaurato nel XVIII secolo, i Francesi tentarono in ogni epoca, seguiti in questo dagli Spagnoli, dai Portoghesi, dagli Americani, dai Tedeschi (prima del 1918) e dagli Italiani, di escludere la concorrenza straniera dalle rispettive colonie, ricorrendo a un sistema di dazi preferenziali sull'importazione, sostenuto da controlli amministrativi, da sussidi alle compagnie di navigazione nazionali e da altri mezzi di questo genere. Gli stessi metodi furono usati dagli Inglesi a partire dal 1932 e anche dal Belgio e dall'Olanda, sempre a partire dagli anni trenta, soprattutto come risposta alla recessione internazionale. Gli effetti globali di queste misure furono alquanto complessi. Innanzitutto si ebbe una percentuale artificiosamente elevata di esportazioni e di importazioni tra la madrepatria e le colonie, che in alcuni casi raggiunse il 90% dell'intero volume di scambi. In secondo luogo questo regime protezionistico fece lievitare i prezzi sia nella madrepatria sia nelle colonie, rendendo entrambe le economie meno competitive sul piano internazionale. D'altro canto, alcune industrie europee e altre attività produttive delle colonie riuscirono a tirare avanti con un certo profitto laddove, in assenza di barriere protezionistiche, avrebbero potuto soccombere alla concorrenza internazionale. Il modello alternativo di economia imperiale fu il libero scambio, adottato dagli Inglesi verso la metà del XIX secolo, da essi mantenuto sino al 1932 e copiato dall'Olanda e dal Belgio. Dal punto di vista della madrepatria il libero scambio - che implicava la rimozione dai mercati nazionali e coloniali di ogni vincolo protezionistico - era auspicabile in quanto mezzo per aprirsi l'accesso ai mercati di tutto il mondo, ma solo nel caso in cui i prodotti e i servizi offerti dalla madrepatria fossero competitivi su scala mondiale. È certo significativo il fatto che gli Inglesi abbiano adottato una politica liberoscambista nel momento in cui erano i leaders dell'industria e della finanza mondiali, e l'abbiano abbandonata dopo aver perduto tale posizione di preminenza. Analogamente nel 1932 gli Americani, tradizionalmente protezionisti, cominciarono a intravedere i vantaggi del libero scambio per la loro economia; di conseguenza iniziarono a esercitare una forte pressione sulle potenze imperiali affinché queste ritirassero i provvedimenti protezionistici, pressione che condusse all'accordo GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), nel 1948. Dal punto di vista delle colonie il libero scambio sortì due effetti contraddittori. Da un lato, attraverso l'apertura del territorio alle importazioni provenienti da ogni parte del mondo, esso minacciò e in molti casi distrusse la produzione manifatturiera indigena, scoraggiando inoltre i capitalisti locali e quelli stranieri dall'investire nell'industria moderna. Il libero scambio fu quindi una delle ragioni per cui nel mondo coloniale prima degli anni cinquanta vi fu una produzione manifatturiera assai scarsa. Dall'altro lato, però, il libero scambio assicurò alle colonie la possibilità di acquistare prodotti d'importazione in ogni parte del mondo al più basso prezzo possibile, e ciò costituì un grande vantaggio per quegli agricoltori che, a loro volta, dovevano vendere i loro prodotti ai prezzi del mercato libero d'oltreoceano. Il libero scambio assicurò inoltre la competitività sui mercati mondiali ai prodotti principali delle varie colonie, laddove, in un regime protezionistico come quello instaurato dalla Francia, i prezzi dei prodotti coloniali d'esportazione tendevano a essere troppo alti per risultare competitivi. Comunque, in regime protezionistico o di libero scambio, la tipica colonia tropicale moderna produceva ed esportava materie prime o semilavorati, importando la maggior parte dei manufatti di cui necessitava. Ciò la rendeva complementare alla sua madrepatria industrializzata e la metteva in condizione di sfruttare al massimo la sua dotazione di fattori produttivi e il principio del vantaggio comparato. Tale specializzazione, tuttavia, lasciava la colonia pericolosamente vulnerabile alle fluttuazioni del mercato internazionale, come avvenne nel corso degli anni trenta; inoltre le impediva di realizzare un rapido sviluppo economico attraverso l'industrializzazione. Queste erano le accuse abitualmente avanzate dai nazionalisti delle colonie durante la prima metà del XX secolo, accuse che condussero - dopo il conseguimento dell'indipendenza - a una quasi universale adozione del protezionismo e a un'industrializzazione artificialmente stimolata. In alcuni paesi questa nuova strategia ha prodotto effetti positivi, ma nella maggior parte degli Stati africani il risultato principale è stato un apparato industriale inefficiente che produceva beni di consumo a prezzi ben al di sopra di quelli del mercato internazionale. Un altro risultato comune a molti paesi è stato un enorme debito con l'estero, contratto per finanziare il nuovo sistema industriale. Non è ancora chiaro se tali sviluppi siano avvenuti all'insegna degli autentici interessi a lungo termine della massa della popolazione e se questi nuovi sistemi economici abbiano rappresentato un effettivo progresso rispetto al sistema economico coloniale. c) L'impatto sociale della colonizzazione L'aspetto più controverso del processo di colonizzazione e del regime coloniale che ne derivò è probabilmente l'effetto che esercitarono sulla coscienza delle popolazioni assoggettate. Due ordini di giudizi, in netto contrasto tra loro, sono a tal proposito possibili: la colonizzazione ebbe un effetto benefico sulle società coloniali, poiché le inserì nelle grandi correnti del progresso umano; oppure, essa fu controproducente, poiché il dominio straniero distrusse le culture indigene e ingenerò nelle popolazioni assoggettate un senso d'inferiorità. Fino all'inizio del XX secolo quasi tutti gli Europei ritenevano che la loro influenza sulle altre società fosse oltremodo benefica. Il cristianesimo era ritenuto superiore a tutte le altre religioni, la cultura e la scienza occidentali migliori di tutte le altre. Gli Europei dunque non esitavano troppo a distruggere ciò che trovavano, sostituendolo con ciò che portavano con sé. La portata e la crudeltà di queste azioni distruttive furono molto diverse a seconda delle epoche e delle zone conquistate. La forma più distruttiva di imperialismo culturale fu quella praticata dagli Spagnoli in Messico e in Perù nel XVI secolo. In quel caso fu la tradizione cristiana delle crociate, riesumata in occasione della reconquista della penisola iberica contro l'Islam, a provocare la soppressione violenta di quasi tutti gli aspetti della religione e della cultura indigene e l'imposizione del cattolicesimo attraverso il ricorso ai metodi più brutali. A una brutalità paragonabile a questa, sebbene motivata più da obiettivi di espansione territoriale che da una precisa ideologia, ricorsero i colonizzatori del Nordamerica fino al XIX secolo. In nessun'altra parte del mondo l'impatto degli Europei con le culture autoctone fu altrettanto devastante, sia perché le società nordeuropee erano meno imbevute dello spirito delle crociate, sia perché essi incontrarono una resistenza di gran lunga più agguerrita da parte delle religioni e delle società asiatiche. E infatti gli Inglesi compirono pochi tentativi per imporre il cristianesimo in India, limitando la loro 'missione civilizzatrice' principalmente a educare un'élite ai valori intellettuali e culturali dell'Occidente. Nel corso del XIX secolo essi si dimostrarono relativamente tolleranti anche verso i valori e le tradizioni indigene dell'Africa tropicale e del Pacifico, sebbene le missioni protestanti esercitassero una forte influenza su queste colonie. Anche gli Olandesi, in Indonesia, furono abbastanza moderati; i Francesi, invece, furono fortemente influenzati da due tradizioni che li spingevano a un atteggiamento interventista in campo religioso e culturale: il cattolicesimo e l'ideologia universalistica della Rivoluzione. Per tutto il XIX secolo, fino ai primi anni del XX, sulle popolazioni dei possedimenti francesi vennero esercitate forti pressioni perché adottassero i valori culturali e la lingua francesi e il cattolicesimo: per diventare a tutti gli effetti un cittadino (condizione ben diversa da quella di suddito coloniale) un individuo doveva di solito rinunciare alle usanze e alle credenze religiose tradizionali, e superare dei test linguistici e culturali. Anche i Portoghesi e gli Italiani (ma non i Belgi) adottarono comportamenti affini a quelli dei Francesi. Data una gamma così ampia di politiche e di situazioni specifiche, variabili a seconda delle epoche e dei luoghi, è impossibile fornire una definizione generale delle conseguenze sociali della colonizzazione. Tutte le società colonizzate furono afflitte in una certa misura dalla presenza straniera, ma non vi è alcuna somiglianza significativa tra gli effetti di tale presenza, poniamo, sull'America Latina e sull'India. Per di più, persino all'interno delle singole società coloniali l'impatto della colonizzazione subì ampie oscillazioni. In molti paesi esso fu avvertito in maniera più forte da coloro che si trovavano ai livelli più alti della società, da coloro, cioè, che più probabilmente avevano ricevuto un'educazione di tipo occidentale e la usavano a proprio vantaggio, per esempio in qualità di agenti dell'amministrazione coloniale o come operatori autonomi nei settori occidentalizzati dell'economia: commercianti, banchieri o avvocati. Molti individui appartenenti a questa classe si trovarono a essere compiacenti collaboratori delle potenze coloniali, non ravvisando alcuna incompatibilità intrinseca tra la situazione della colonia e i propri interessi. Generalmente fu solo a uno stadio avanzato del processo di ricostruzione sociale che i membri di queste élites giunsero alla conclusione che, a lungo andare, le opportunità loro accessibili sarebbero state alquanto limitate dalla dominazione straniera: a questo punto essi tendevano naturalmente a divenire leaders di partiti nazionalisti, pur conservando ancora la fede in gran parte dei valori culturali stranieri che avevano abbracciato. Inoltre, era soprattutto tra le file di queste élites che si diffondevano atteggiamenti di frustrazione e di insoddisfazione nei confronti delle conseguenze sociali della colonizzazione; il risentimento più forte, in altre parole, nasceva proprio in coloro che erano più influenzati dalle idee straniere, piuttosto che nella massa della popolazione, la quale nella maggior parte dei casi ne era a stento consapevole. Tutto ciò dev'essere tenuto presente quando si affronta la vasta letteratura prodotta da alcuni intellettuali, nel corso degli ultimi decenni dell'epoca coloniale, per illustrare le ragioni del loro malcontento. La gamma di idee e di argomentazioni presenti in tale letteratura è, ovviamente, vastissima, ma l'elemento ricorrente con maggior frequenza - riscontrabile tanto nel pensiero di Gandhi, in India, quanto tra i sostenitori della 'negritudine', come Leopold Senghor, in Senegal - è l'opinione che gli Europei abbiano quasi sempre cercato di persuadere i propri sudditi coloniali che il loro passato 'precoloniale' non aveva alcun valore e che avrebbero dovuto adottare integralmente le tradizioni culturali e intellettuali dei loro dominatori occidentali. La formulazione più conosciuta di quest'accusa è probabilmente quella espressa da un medico di colore della Martinica, Frantz Fanon, durante gli anni in cui militava a fianco delle forze rivoluzionarie algerine, nel suo libro I dannati della terra pubblicato per la prima volta nel 1961: "Il colonialismo non trae soddisfazione semplicemente dal mantenere un popolo sotto il suo giogo e dal riempire il cervello dei nativi con ogni sorta di idee. In base a una logica perversa, esso si volge al passato dei popoli oppressi e lo distorce, lo trasfigura, lo distrugge [...]. Il risultato consapevolmente perseguito dal colonialismo è stato quello d'introdurre nelle teste dei nativi la convinzione che, se i colonizzatori li avessero abbandonati, essi sarebbero subito ripiombati nella barbarie, nella degradazione, nella bestialità [...]. La madre coloniale protegge il proprio figlio da se stesso, dal suo ego, dalla sua fisiologia, dalla sua biologia e dalla sua infelicità, che costituisce la sua vera essenza". Questa è una forma estrema della protesta contro gli effetti prodotti dalla colonizzazione sulle culture autoctone; essa non è certamente applicabile a ogni epoca e a tutte le situazioni coloniali, e ignora il contributo positivo che l'esposizione a un più vasto mondo di idee ha fornito allo sviluppo intellettuale e sociale dei popoli colonizzati. Tuttavia essa contiene una parte di verità che è sufficiente a spiegare perché, una volta compiuto il processo di decolonizzazione, la maggior parte delle società del Terzo Mondo abbia cercato consapevolmente di ritrovare, e se necessario di costruirsi, una propria identità. Se si tenta, a questo punto, di riassumere il carattere del colonialismo moderno nei suoi tre aspetti principali - politico, economico e culturale - appare chiaro che ciò che lo contraddistinse maggiormente fu il proposito di superare l'isolamento e l'autonomia dei territori coloniali e di incorporarli in un unico sistema mondiale incentrato nel mondo occidentale. Questo tentativo non raggiunse mai pienamente lo scopo. I suoi effetti furono maggiori dove le colonie erano costituite, o comunque dominate, da società di coloni europei che vi risiedevano stabilmente, come negli Stati Uniti, in Australia, in Nuova Zelanda o in Sudafrica. Il suo successo dipese inoltre dalla durata del periodo coloniale: fu massimo nelle Americhe, che erano state colonizzate nel XVI secolo, fu invece minimo nella maggior parte dei territori dell'Africa Nera, dove la dominazione coloniale era durata meno di un secolo. Un altro importante fattore che condizionò questo successo fu il grado di evoluzione - e quindi di capacità di recupero - delle forme politiche, sociali e culturali indigene: molto elevato in Asia, debole in gran parte dell'Africa Nera e del Pacifico. Ma l'esperienza della colonizzazione fu ovunque incancellabile ed ebbe in ogni caso effetti irreversibili. Paradossalmente, tuttavia, fu proprio questa esperienza che rese possibile il processo di decolonizzazione avvenuto verso la metà del XX secolo. La decolonizzazione poté realizzarsi solo quando i coloni divennero sufficientemente insofferenti della loro posizione di sudditanza in un sistema mondiale dominato dai paesi occidentali, da desiderare di liberarsi del ruolo di emarginati. E, infine, quando le potenze imperiali d'Occidente si convinsero che i loro possedimenti coloniali sarebbero stati più redditizi, e avrebbero creato meno problemi, come Stati indipendenti che come colonie. Fu la colonizzazione a creare l'insieme di queste condizioni che, più tardi, ne determinarono la fine. 5. La decolonizzazione, 1945-1985 Le varie tappe del processo di decolonizzazione possono essere riassunte molto in breve. Nel 1945 gli imperi coloniali raggiunsero la loro massima estensione, arrivando a comprendere quasi tutta l'Africa, l'Asia meridionale e sudorientale, il Pacifico e gran parte dei Caraibi. Nel 1965 tutta l'Asia, comprese le regioni sudorientali, aveva raggiunto l'indipendenza insieme alla maggior parte dell'Africa (eccettuati i territori portoghesi) e delle isole caraibiche. Nel 1985 soltanto alcuni piccoli territori si trovavano ancora soggetti a un'autorità imperiale: Hong Kong era in attesa di essere restituita alla Cina nel 1997 e la maggior parte degli altri o erano troppo piccoli per reggersi da soli o - come nel caso di Gibilterra e delle Falkland - divennero oggetto di disputa tra la potenza imperiale, i coloni e un altro Stato. Un'inversione così rapida e totale di un processo di colonizzazione che era andato inarrestabilmente progredendo lungo un arco di tempo così lungo richiede una spiegazione, come la richiede anche il fatto che il processo di decolonizzazione si sia sviluppato dopo il 1945. Fondamentalmente le spiegazioni possibili sono due. In base alla prima, gli Stati imperiali decisero che le colonie non erano più convenienti e preferirono smembrare i propri imperi. In base alla seconda, furono le popolazioni delle colonie a sbarazzarsi del dominio imperiale o comunque a rendere il suo protrarsi talmente difficoltoso e problematico che gli Stati colonizzatori preferirono cedere loro l'esercizio del potere politico. All'atto pratico, naturalmente, nessuna di queste due spiegazioni è in grado di reggersi da sola: è più verosimile una loro combinazione. Nel 1776, nella sua Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Adam Smith dichiarò con estrema franchezza: "Supporre che la Gran Bretagna rinunci volontariamente a tutta la propria autorità sulle colonie [...] significherebbe attribuirle una decisione che mai fu e mai sarà adottata da nessuna nazione al mondo". Almeno sino alla metà del XX secolo la storia gli ha dato ragione: gli Stati Uniti, Haiti, le colonie spagnole e il Brasile acquistarono tutti la propria indipendenza facendo ricorso alle armi, o comunque contro la volontà della madrepatria, non per un venir meno dell'impulso alla colonizzazione. C'è allora da chiedersi quando questo impulso abbia perso la sua forza, ammesso che ciò sia avvenuto, e per quali motivi. Il periodo-chiave fu la prima metà del nostro secolo. Prima del 1900, nei vari Stati europei si criticavano spesso determinate imprese coloniali; tali critiche, tuttavia, riguardavano quasi sempre l'eccessivo costo dell'impresa o la possibilità che essa suscitasse gravi questioni diplomatiche, o lo scarso valore dei territori acquisiti. In Europa non si sviluppò, di fatto, alcun dibattito intorno alla questione morale della legittimità della colonizzazione (sebbene si discutesse, talvolta, in merito al trattamento da riservare alle popolazioni indigene) o ai vantaggi più generali che il possesso delle colonie avrebbe potuto fornire. In realtà, era generalmente accettato il fatto che i popoli non europei, a meno di non essere privati del godimento dei diritti umani fondamentali, avessero tutto da guadagnare dalla colonizzazione a opera di quelle che erano normalmente considerate le razze 'superiori'; le colonie, inoltre, erano considerate di vitale importanza dagli Stati relativamente piccoli, nella loro competizione con paesi di enormi dimensioni come gli Stati Uniti e la Russia. La seconda di queste convinzioni si è mantenuta a lungo, probabilmente sino agli anni cinquanta, mentre alcuni dubbi sulla legittimità morale della colonizzazione nacquero sin dai primi anni del nostro secolo, per effetto, soprattutto, di due movimenti intellettuali convergenti. Il primo di questi era il socialismo: Marx, come abbiamo già visto, descrisse la fase iniziale della colonizzazione come un processo di distruzione e di saccheggio, sebbene egli ritenesse anche che l'avvento del capitalismo avrebbe rappresentato il mezzo essenziale attraverso cui società statiche dal marcato aspetto feudale avrebbero potuto diventare dinamiche e giungere, superata la fase capitalistica, al socialismo. I suoi seguaci svilupparono una critica dell'imperialismo che ne enfatizzava, come aspetto peculiare, lo sfruttamento dei popoli assoggettati. In base a tale concezione, le colonie sarebbero state conquistate per soddisfare i bisogni economici del capitalismo avanzato e la colonizzazione avrebbe causato l'impoverimento e la proletarizzazione delle popolazioni indigene, inducendole così a unirsi al proletariato dei paesi industrializzati. Il loro stato di estrema indigenza avrebbe alla fine provocato movimenti di resistenza e di indipendenza, i quali però difficilmente avrebbero avuto successo se prima non fossero scoppiate nella stessa Europa le rivoluzioni socialiste. I socialisti, dunque, assunsero una posizione critica nei confronti del colonialismo già prima del 1914, ma essi erano tutt'altro che numerosi e non rappresentavano il punto di vista della maggioranza degli Europei. Ben più importante, sotto questo aspetto, fu il sorgere di una critica di estrazione liberale alla colonizzazione, critica suscitata, in larga misura, dall'osservazione, nei decenni successivi al 1890, delle conseguenze della spartizione dell'Africa. In un primo momento la maggior parte dei liberali e dei filantropi sostenne l'occupazione dell'Africa e del Pacifico, ritenendo che essa avrebbe apportato in quei territori civiltà, religiosità cristiana e prosperità economica. Ma col passare del tempo divenne sempre più evidente che l'opera di colonizzazione si attuava troppo spesso con il ricorso alla violenza brutale e alla negazione dei più elementari diritti umani, come del resto veniva denunciato dalla stampa, da molti libri e da vari gruppi di pressione. I resoconti delle atrocità commesse nello Stato libero del Congo, fondato nel 1885 sotto Leopoldo II del Belgio con la pretesa di perseguire scopi umanitari, provocarono una tale ondata di indignazione che nel 1908 il governo belga, per quanto riluttante, dovette acconsentire ad assumersi la responsabilità di governare il Congo come una vera e propria colonia. Anche i metodi adottati dai Tedeschi per annientare la resistenza delle popolazioni dell'Africa sudoccidentale e del Tanganica provocarono un grande scalpore presso i circoli liberali, compresi quelli tedeschi. In molti altri casi - dall'intervento americano nelle Filippine a quello inglese in Rhodesia - la brutalità di quella che, con un eufemismo, veniva chiamata la 'pacificazione' di sudditi riluttanti nelle colonie di recente acquisizione scosse la parte più sensibile dell'opinione pubblica di svariati paesi. Alla vigilia della prima guerra mondiale la colonizzazione delle regioni tropicali cominciò a essere sottoposta allo stesso genere di esame critico che agli inizi del XIX secolo era stato riservato alla tratta degli schiavi e all'istituzione stessa della schiavitù. La maggior parte di tali critiche, tuttavia, era ben lontana dal proporre apertamente la decolonizzazione. Vi era la consapevolezza del fatto che, nella migliore delle ipotesi, solo pochissimi tra i paesi di recente colonizzazione sarebbero riusciti ad amministrare i propri affari come Stati sovrani di tipo occidentale, ed era ormai troppo tardi per tornare indietro e permettere loro di ripristinare le istituzioni precoloniali. La soluzione liberale, nel periodo che arriva sino agli anni quaranta, fu dunque quella di avviare riforme, ma non rivoluzioni: le potenze imperiali avrebbero dovuto agire in qualità di amministratori degli interessi dei popoli coloniali, non come conquistatori e sfruttatori. Proprio sulla base del presupposto - in gran parte falso - secondo cui i Tedeschi avevano dimostrato, prima del 1914, un'assoluta incapacità di agire in questo modo, venne giustificato lo smembramento delle loro colonie dopo il 1918. C'erano alcuni che non credevano nella capacità degli altri Stati imperiali di comportarsi con le proprie colonie in modo così benevolo, e ciò dette origine al proposito, ventilato nei circoli liberali britannici prima del 1914 ed esplicitamente formulato dal presidente degli Stati Uniti Wilson nel 1919, di porre tutte le colonie sotto la supervisione della Società delle Nazioni, da poco istituita. Un'interferenza così pesante nella propria sovranità nazionale fu però considerata inaccettabile dagli Stati europei, anche se si giunse al risultato, peraltro limitato, di creare il sistema dei mandati per tutti i territori nemici occupati dai paesi vincitori. La fiducia dei paesi occidentali nella legittimità morale della colonizzazione rimase dunque più o meno inalterata durante il ventennio intercorso tra le due guerre mondiali. Purché le potenze occupanti si attenessero al dovere di agire nell'interesse dei popoli soggetti, si considerava giusto che il regime coloniale si protraesse finché tali popoli non fossero stati maturi per l'indipendenza (la maggior parte degli Europei pensava che ciò non si sarebbe verificato nel corso del XX secolo). In effetti, l'entusiasmo dell'opinione pubblica per l'impero, soprattutto in conseguenza delle avverse condizioni economiche, probabilmente aumentò in quegli anni; la prolungata crisi economica condusse a un elevatissimo tasso di disoccupazione che - come argomentavano i sostenitori dell'impero - avrebbe potuto essere ridotto riorganizzando adeguatamente le risorse degli imperi: le colonie avrebbero fornito nuovi mercati a un capitale altrimenti non investibile e a beni di consumo altrimenti non vendibili, nonché materie prime a prezzi più bassi di quelli del libero mercato. Ma esse avrebbero potuto svolgere pienamente questo ruolo solo attraverso un ulteriore sviluppo economico, il quale richiedeva investimenti di ben più ampia portata da parte dei paesi colonizzatori: donde i progetti, approntati dalla Gran Bretagna e dalla Francia, di offrire alle proprie colonie sovvenzioni e prestiti. Tale sviluppo dei territori dipendenti avrebbe a sua volta soddisfatto le condizioni dell'amministrazione fiduciaria e giustificato il permanere del colonialismo. La ferma intenzione di mantenere i propri imperi, dunque, sopravvisse intatta almeno sino al 1939. Ma vi fu anche qualche avvisaglia di un parziale cambiamento d'opinione, soprattutto all'interno dei circoli liberali britannici e americani, i quali reagirono duramente alla colonizzazione dell'Abissinia da parte dell'Italia e all'espansione giapponese in Cina, considerandole illegittime. Di maggiore rilevanza fu probabilmente il fatto che cominciava a farsi largo l'idea che lo scopo primario della colonizzazione fosse quello di preparare le colonie all'autogoverno, in vista dell'indipendenza. Questa era da sempre la politica perseguita dagli Americani, politica che affondava storicamente le sue radici nella nascita degli Stati Uniti - avvenuta attraverso una rivoluzione - e che non era stata modificata dall'annessione delle Filippine, delle Hawaii e di Portorico nel 1898. Alle Filippine fu promessa l'indipendenza nel 1933, alle Hawaii e a Portorico fu concessa la possibilità di scegliere tra l'indipendenza e il diventare Stati dell'Unione. Il modello prevalente seguito dalla Gran Bretagna fu la concessione dell'autogoverno agli insediamenti di coloni provenienti dalla madrepatria, chiamati dominion sin dal 1907: Canada, Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica (con l'aggiunta dell'Irlanda nel 1922). Questi territori, che avevano a lungo goduto di un'ampia autonomia interna, ottennero un riconoscimento internazionale allorché firmarono i trattati di pace del 1919; dal 1931 fu legalmente sancito il loro diritto di diventare Stati sovrani. Questo tipo di evoluzione forniva un modello per le altre colonie, nel momento in cui anch'esse avessero raggiunto manifestamente la capacità di autogovernarsi; il problema era quando tale capacità sarebbe stata loro riconosciuta. Il 1917 rappresentò, simbolicamente, il punto di svolta. In quell'anno gli Inglesi promisero all'India "il graduale sviluppo delle istituzioni necessarie all'autogoverno, nella prospettiva di realizzare progressivamente in India un governo rappresentativo come parte integrante dell'impero britannico". Nel 1929 il viceré interpretò queste parole come se conferissero anche all'India lo status di dominion. Provvedimenti più importanti ai fini del rafforzamento dell'autogoverno indiano erano stati presi nel 1919 e altri furono presi nel 1935. Nel 1939 lo status di dominion quale era stato attribuito al Canada e agli altri paesi già menzionati era superato per alcuni aspetti, ma il principio che anche un possedimento non abitato in prevalenza da coloni della madrepatria potesse muoversi verso l'indipendenza nell'ambito del Commonwealth (così veniva chiamato sempre più spesso l'impero, a indicare lo status speciale dei dominion) era d'importanza fondamentale. Nel 1938 alcuni membri di spicco del Partito Laburista inglese si impegnarono a riconoscere all'India, una volta che essi fossero al governo, la condizione di dominion a tutti gli effetti. Nessun'altra colonia britannica, se si eccettua forse Ceylon, era altrettanto avanzata politicamente e tenuta in considerazione dalla Gran Bretagna, quanto l'India nel 1939. Ma la parte progressista di alcuni ambienti governativi stava giungendo alla conclusione che tutte le colonie avrebbero alla fine seguito la stessa strada, e che i preparativi dovessero esser fatti con un certo anticipo. Sotto questo aspetto la Gran Bretagna rappresentò un'eccezione tra le potenze coloniali: nessun'altra adottò un modello paragonabile a quello dei dominion britannici. I Francesi, che mancavano persino di termini equivalenti ad 'autogoverno' e usavano pertanto l'espressione inglese, erano ancora saldi nella convinzione che il futuro ultimo delle loro colonie sarebbe stato l'incorporazione nella Repubblica attraverso la progressiva estensione del diritto di cittadinanza, sebbene si sforzassero assai poco per promuovere tale estensione. I Portoghesi adottarono lo stesso atteggiamento, contrariamente agli Olandesi e ai Belgi, che però non presero iniziative concrete per incoraggiare l'autogoverno nelle loro colonie. Nel 1939, dunque, soltanto il comportamento degli Inglesi dimostrava che la decolonizzazione poteva essere, alla fine, il risultato del riconoscimento da parte delle potenze imperiali del diritto delle colonie alla libertà. La seconda guerra mondiale esercitò un forte e al tempo stesso paradossale influsso sugli atteggiamenti delle potenze imperiali: essa rese la decolonizzazione un problema pressante proprio mentre offriva incentivi di carattere emotivo e pratico a ostacolarla o a posticiparla. La decolonizzazione s'impose come un problema urgente poiché gli alleati occidentali stavano dichiaratamente combattendo una guerra contro la tirannide e a sostegno dei diritti dei popoli oppressi. Secondo il presidente degli Stati Uniti Roosevelt ciò valeva non solo per i territori europei occupati dai Tedeschi e per quelli asiatici invasi dal Giappone, ma anche per le colonie, ed egli intendeva usare la sua autorità per indurre la Gran Bretagna a impegnarsi in questo senso nella Carta Atlantica del 1941. Roosevelt si scontrò, su questo punto, con la ferma opposizione di Winston Churchill, ma la pressione americana sulla Gran Bretagna per spingerla a dichiarare ufficialmente la sua intenzione di promuovere il futuro autogoverno delle colonie e a intraprendere iniziative concrete per migliorarne le condizioni sortì un notevole effetto. Nel corso della guerra alcuni circoli governativi britannici cominciarono a pensare seriamente al futuro e fecero propria l'esigenza di accelerare il movimento verso l'autogoverno delle colonie, pur senza stabilire ancora delle scadenze precise per la concessione dell'indipendenza; solo all'India fu promesso, nel 1942, che avrebbe ottenuto lo status di dominion dopo la fine della guerra. Soltanto a partire dal 1947 il Ministero delle Colonie britannico preparò un piano per il graduale trasferimento del potere dalla madrepatria alle varie dipendenze territoriali, un piano basato, però, sul presupposto che il processo avrebbe potuto richiedere una generazione o più. Si stavano, inoltre, verificando eventi importanti, capaci di far slittare qualsiasi cambiamento di fondo nell'atteggiamento degli Europei. In primo luogo, le altre potenze imperiali, a esclusione della Spagna e del Portogallo, vennero occupate dai Tedeschi nel periodo compreso tra il 1940 e il 1945, e quindi non si aprirono alle nuove correnti del pensiero anticolonialista. In secondo luogo, per tutti gli Stati imperiali compresa la Gran Bretagna, uno tra i più importanti obiettivi militari diventò proprio quello di tornare in possesso delle colonie che erano state occupate dalle potenze nemiche, in particolare dei territori del Sudest asiatico e del Pacifico. In terzo luogo, e si tratta dell'elemento più importante, le condizioni dell'economia postbellica resero le colonie di vitale interesse per i loro possessori, in misura maggiore di quanto non fosse mai accaduto in passato. Tutti gli Stati europei dovettero intraprendere una radicale ricostruzione dell'economia nazionale; il loro fabbisogno di capitali e di beni di consumo, importati soprattutto dalle Americhe, era molto elevato, ma la possibilità di pagare le importazioni era stata drasticamente ridotta dalla disorganizzazione in cui versavano le loro economie e, nel caso della Gran Bretagna, dagli enormi debiti con l'estero accumulati durante la guerra. In tali circostanze, le colonie che producevano beni che potevano essere venduti all'estero in cambio di valuta pregiata furono considerate una risorsa vitale della nazione, perduta la quale sarebbe stata seriamente compromessa la possibilità di un'effettiva ripresa economica. Il risultato fu che dal 1945 sino a buona parte degli anni cinquanta lo slancio del pensiero europeo in direzione della decolonizzazione subì un arresto. Anche la pressione americana fu fortemente ridotta dalla nuova strategia imposta dalla guerra fredda, che faceva apparire la stabilità politica dell'Africa e dell'Asia più importante della lotta per l'affermazione dei principî liberali. L'India dovette essere abbandonata nel 1947, poiché non poteva più essere tenuta sotto controllo; la Birmania lo fu nel 1948, ma essa non era mai stata effettivamente riconquistata dalle truppe britanniche; Ceylon fu anch'essa abbandonata nel 1948, poiché non si poteva continuare a negarle ciò che era stato concesso all'India. Ma gli artefici della politica estera britannica erano ora maggiormente interessati a trovare una formula che soddisfacesse l'opinione pubblica liberale - sia in Gran Bretagna che all'interno del sempre più influente foro internazionale costituito dalle Nazioni Unite -, rimandando al tempo stesso il trasferimento effettivo del potere. Tale formula constava di due elementi: il processo di liberalizzazione politica sarebbe stato accelerato, iniziando dalla base, con una riforma dei governi locali e, per convincere i popoli assoggettati delle sue buone intenzioni, la Gran Bretagna avrebbe promosso un più sostenuto sviluppo economico e sociale, accollandosene i costi. I Francesi non parlavano ancora di autogoverno, ma intervennero per eliminare alcuni dei più macroscopici abusi del sistema coloniale prebellico - in primo luogo l'obbligo di prestare lavoro nelle imprese pubbliche - e promisero anch'essi grandi miglioramenti economico-sociali. Gli Olandesi erano troppo occupati dai loro tentativi, rivelatisi alla fine del tutto vani, di riguadagnare il controllo dell'Indonesia (che furono costretti dagli Americani a evacuare definitivamente nel 1949) per trovare il tempo di formulare progetti di questo tipo. I Belgi in Congo e i Portoghesi nei loro territori africani ignorarono le istanze di decolonizzazione, ma fecero sforzi senza precedenti per incentivare lo sviluppo economico. In conclusione, l'atteggiamento invalso nell'immediato dopoguerra presso l'opinione pubblica europea, e nella maggioranza della sinistra moderata, fu piuttosto riformista che realmente favorevole alla decolonizzazione. Il punto di svolta per tutti gli Stati europei, eccettuato il Portogallo, si ebbe tra il 1949 e il 1960, quando per la prima volta si registrò la contemporanea influenza degli eventi che si svolgevano nelle colonie e delle considerazioni suggerite dalla situazione in cui versavano gli Stati colonizzatori. Da una parte, il rapido diffondersi nelle colonie di movimenti nazionalisti - che saranno descritti in seguito - sollevò questioni concernenti sia la convenienza che la moralità di una loro repressione: gli anni cinquanta, in effetti, videro la nascita, in Gran Bretagna e in Francia, di potenti movimenti antimperialisti che per la prima volta misero in discussione la colonizzazione come fatto in sé. Il trasferimento del potere divenne così un argomento da sbandierare nella competizione elettorale di fronte a tutte le componenti dell'elettorato. Dall'altra parte, l'importanza economica delle colonie per i loro possessori declinò rapidamente, all'incirca a partire dal 1951, a mano a mano che la ricostruzione europea procedeva con successo e che il prezzo dei prodotti di esportazione coloniali andava calando in seguito alla guerra di Corea, conclusasi nel 1952. L'Europa non aveva più bisogno di mantenere sulle colonie lo stesso grado di controllo che aveva esercitato in passato; al contrario, alla fine degli anni cinquanta il prevedibile peso del sostegno economico promesso ai territori coloniali cominciò a farsi sentire: si comprese che, qualora essi avessero ottenuto la libertà, avrebbe potuto esser posto qualche limite al deflusso di capitali dall'Europa. Il risultato della combinazione di questi fattori fu che, piuttosto inaspettatamente, verso la fine degli anni cinquanta tutte le principali potenze coloniali adottarono una politica di decolonizzazione che prevedeva il trasferimento del potere a tutte le colonie, da attuare in tempi brevi e senza le molte riserve espresse in passato sulla loro capacità di amministrare efficientemente i propri affari. Gli Inglesi si mossero con grande rapidità dopo il 1959; la Francia di de Gaulle pose fine nel 1960 al controllo politico sui propri possedimenti africani. Nello stesso anno i Belgi, senza aver compiuto alcun preparativo, evacuarono improvvisamente il Congo. L'Italia non aveva più recuperato le sue colonie africane dopo la fine della guerra. Così, soltanto la Spagna e il Portogallo rimanevano nella posizione di colonialisti convinti: la Spagna abbandonò le sue piccole colonie africane dopo il 1969, il Portogallo rinunciò al suo impero tra il 1974 e il 1975, in seguito a una rivoluzione interna. La decolonizzazione può dunque essere spiegata, entro certi limiti, con un mutamento radicale nell'atteggiamento degli Europei. Tuttavia il momento in cui tale mutamento è avvenuto e la velocità con cui si è attuato sono stati condizionati in ultima analisi dal grado di resistenza che le potenze coloniali hanno incontrato nei rispettivi possedimenti. È quindi necessario analizzare brevemente il sorgere del nazionalismo coloniale e il significato che esso ha avuto nel processo di decolonizzazione. Che cosa esattamente abbia costituito e alimentato l'idea di indipendenza nazionale nelle colonie, in quanto distinta dalla resistenza inizialmente opposta all'invasione straniera, rimane un argomento controverso. Assumendo una definizione-tipo di ciò che in Europa si considera una nazione, e cioè un popolo ben preciso, caratterizzato da un'origine, da una lingua o da una storia comuni, organizzato di solito come uno Stato politico distinto che occupa un territorio chiaramente delimitato, e intendendo il nazionalismo come fedeltà alla propria nazione, è allora ovvio che erano assai pochi i territori coloniali che rientravano sotto tale definizione. Numerosissime, soprattutto nell'Africa Nera, erano le commistioni tra popoli e tra entità geografiche improvvisate dalle potenze imperiali in base ai propri interessi. Le unità territoriali che si venivano così a creare ospitavano popolazioni che non avevano origini, lingua, storia o religione in comune. Nel periodo precoloniale l'unica forma di fedeltà conosciuta da queste popolazioni era circoscritta e personale, nel senso che si trattava di fedeltà alla persona del capo piuttosto che al territorio da lui governato. Il concetto idealizzato di nazione elaborato da alcuni filosofi europei, come Hegel, risultava completamente estraneo ai loro modelli di pensiero. Molte società precoloniali, inoltre, si erano abituate ad accettare governanti stranieri: così i Moghūl dell'India erano di origine persiana e religione musulmana, ma questo non aveva affatto diminuito l'autorità da essi esercitata sui propri sudditi, che erano in maggioranza indù. Naturalmente vi erano delle eccezioni, ovvero territori che già prima dell'epoca coloniale costituivano Stati più o meno integrati, con una precisa fisionomia linguistica, culturale e religiosa: era questo il caso del Marocco, della Tunisia, dell'Egitto, della Birmania, dei territori che fecero poi parte dell'Indocina francese, e, infine, di alcune unità politiche relativamente piccole dell'Africa Nera. È alquanto significativo che l'intensità della resistenza opposta all'iniziale invasione degli Europei - o comunque alla loro influenza politica, economica e culturale -, nonché, spesso, alla vera e propria occupazione coloniale, fu in genere direttamente proporzionale all'intensità con cui tali società percepivano se stesse come entità omogenee. È anche vero, tuttavia, che persino in quelle società che inizialmente cercarono di opporsi alla dominazione coloniale o che lo fecero qualche tempo dopo la prima occupazione - come nel caso della rivolta indiana del 1857 -, quando era ormai evidente la profonda portata del dominio straniero, la resistenza fu generalmente seguita da un periodo che vide, in misura maggiore o minore, la docile accettazione della realtà di tale dominio. Questa accettazione a volte fu passiva e risentita, ma spesso rifletteva un rispetto crescente per alcuni aspetti dei modelli di pensiero e dei metodi organizzativi della potenza coloniale. In ogni possedimento, infatti, finirono per formarsi dei gruppi consapevoli della necessità di acquisire, date le nuove circostanze, proprio quelle capacità che garantivano ai governanti stranieri la loro preminenza. Si comprese che la chiave del successo risiedeva nell'istruzione, che da quel momento fu tenacemente coltivata, spesso nelle scuole e nelle università della madrepatria. Il risultato di tale processo fu la formazione di una nuova élite, di solito socialmente inferiore alla classe dirigente indigena, che si attribuiva capacità identiche a quelle di chi governava la colonia e ne controllava la vita economica. Fu proprio da questa nuova élite, e dalla sua convinzione di dover occupare un posto adeguato nella società e nel governo, che si sviluppò la maggior parte dei movimenti nazionalisti. La sua ostilità nei confronti del colonialismo aveva due origini principali. In primo luogo, in molti territori i rappresentanti di questa élite erano esclusi per vari motivi da posizioni di rilievo in campo politico, amministrativo e spesso anche economico. L'ambizione personale, quindi, li indusse a rivendicare opportunità uguali a quelle degli Europei che controllavano la vita coloniale. In secondo luogo, in quanto rappresentanti della società coloniale nel suo complesso, essi giunsero a vedere il potere straniero come una violazione dei diritti umani; attraverso la loro educazione europea avevano assorbito i concetti di libertà e di uguaglianza, e molti di loro avevano osservato dal vivo il funzionamento delle democrazie d'oltremare; essi avevano anche assimilato e fatto propria l'idea di nazione sovrana come la più alta forma di organizzazione politica. Osservato con questi occhi, lo Stato coloniale, autoritario e per di più straniero, appariva loro come una negazione di quei valori in cui i loro maestri europei asserivano di credere. La conclusione non poté essere che la volontà di trasformare la colonia in uno Stato nazionale, il che significava la fine dell'autorità imperiale, cioè la decolonizzazione. Lo sviluppo del nazionalismo, dunque, costituì l'elemento essenziale che concorse, accanto ai crescenti dubbi degli Europei sulla moralità e sulla convenienza del mantenimento del dominio imperiale, a provocare la decolonizzazione. Senza questo impulso proveniente dalle colonie, la volontà della madrepatria di procedere realmente alla decolonizzazione sarebbe stata sicuramente più debole, anzi avrebbe potuto non svilupparsi affatto, dal momento che il colonialismo fu considerato immorale soprattutto perché fu avversato nelle colonie e divenne scomodo solo quando tale resistenza si rivelò sufficientemente forte. Pertanto la cronologia della decolonizzazione, almeno fino alla fine degli anni cinquanta, risultò strettamente connessa allo sviluppo di una resistenza nazionalistica nelle singole colonie, che ebbe luogo in momenti diversi, a seconda dei casi, principalmente in funzione di due fattori: l'epoca della colonizzazione europea e il carattere della società coloniale. In generale, ci si sarebbe potuti attendere che il nazionalismo si sviluppasse in epoca moderna prima di tutto nelle colonie acquisite da più tempo e in cui il processo di istruzione e l'adozione di modelli culturali occidentali avessero avuto il tempo di consolidarsi. D'altro canto, per diventare efficaci, i movimenti nazionalisti dovevano estendersi ben oltre i limiti delle nuove, ristrette élites e fare proseliti tra la massa della popolazione. Questo processo si rivelò sempre difficoltoso, ma lo fu maggiormente in alcune società coloniali che in altre. Il primo movimento nazionalista 'moderno' che si sviluppò in un paese extraeuropeo fu quello fondato nel 1885 dal Congresso Nazionale Indiano; ma l'India non raggiunse l'indipendenza prima del 1947, e fu solo nel corso degli anni venti che i leaders del movimento nazionalista riuscirono a coagulare intorno ai loro obiettivi l'insostituibile sostegno delle masse. Nell'Indonesia olandese e nell'Indocina francese piccoli movimenti nazionalisti, diffusi soprattutto presso l'intelligencija urbana, conobbero un certo sviluppo nel periodo compreso tra le due guerre mondiali, ma furono poi soppressi con relativa facilità. Fu l'occupazione di questi territori a opera dei Giapponesi, dopo il 1941, che, paradossalmente, permise ai nazionalisti locali di conquistare una posizione stabile. I Giapponesi sostenevano che il loro obiettivo era quello di garantire una definitiva indipendenza a queste colonie, e in Indonesia e in Birmania utilizzarono i leaders nazionalisti locali come collaboratori, consentendo persino la formazione di forze militari 'nazionali' sotto il loro effettivo controllo. Nell'Indocina, d'altra parte, la resistenza contro le truppe giapponesi permise al movimento nazionalista, sotto la guida di Ho Chi Minh, di raggiungere una solida posizione nelle campagne. Nel Sudest asiatico, eccettuata la penisola di Malacca, il nazionalismo era quindi molto più forte nel 1945 di quanto non fosse mai stato prima; il fatto che intercorresse un certo tempo tra la capitolazione giapponese e l'arrivo delle truppe alleate in queste regioni, permise ai nazionalisti di dichiararne l'indipendenza, mettendo così le potenze coloniali di fronte alla prospettiva di una loro riconquista violenta. Le cose andarono molto diversamente nella maggior parte delle colonie dell'Africa, del Pacifico e dei Caraibi, fatta eccezione per l'Africa settentrionale islamica. Formalmente Marocco e Tunisia erano ancora governate dai loro capi tradizionali, ma ciò avveniva sotto la supervisione e l'effettivo controllo dei Francesi, e la volontà di liberarsi da tale controllo si era mantenuta intatta sin dall'inizio dell'occupazione straniera. L'Algeria era a tutti gli effetti un possedimento francese, un dipartimento della Repubblica, abitato da circa un milione di coloni provenienti dalla madrepatria. L'ostilità nei confronti della Francia non era però mai venuta meno, e la formazione del Front de Libération Nationale (FLN) nel 1954 rappresentò soltanto l'ultimo stadio della resistenza tenacemente opposta ai Francesi da Arabi e Berberi. Analogamente gli Italiani avevano sempre incontrato resistenza in Libia e gli Inglesi erano stati costretti a interrompere sin dal 1922 l'occupazione formale dell'Egitto. Il nazionalismo nordafricano, basato prevalentemente sull'Islam, ma rafforzato dal fatto che tutti questi Stati, fatta eccezione per la Libia, prima dell'occupazione europea erano autonomi, aveva senza dubbio profonde radici e aspettava soltanto un cambiamento di orientamenti e di circostanze in Europa per ottenere con la forza la decolonizzazione. Nel caso dell'Africa subsahariana, delle isole del Pacifico e (per motivi diversi) delle isole caraibiche, la situazione era differente. Nonostante la forte resistenza iniziale spesso opposta all'occupazione europea, una volta che questa resistenza fu vinta la maggior parte di tali società sembrò accettare il dominio straniero; di tanto in tanto si ebbero dei disordini circoscritti ad alcune zone, ma nel 1945 non esisteva in pratica, in nessuno di questi possedimenti, un solo partito organizzato il cui obiettivo primario fosse quello di far cessare l'occupazione straniera. Il sorgere del nazionalismo in queste colonie fu dunque, in larga parte, un fenomeno posteriore al 1945, sulle cui cause si è molto dibattuto. Il sovvertimento dell'ordine stabilito e la maggiore esposizione alle influenze esterne provocati dalla seconda guerra mondiale risultarono in molti casi decisivi. Le notizie sul movimento di decolonizzazione in atto nelle regioni meridionali e sudorientali dell'Asia esercitarono un effetto stimolante sulle minoranze informate sul decorso degli eventi. Gli effetti economici legati alla penuria di beni di consumo del periodo bellico e postbellico, uniti a una caduta dei redditi reali e all'inflazione, suscitarono una forte ondata di risentimento popolare. Le politiche genuinamente riformiste adottate dagli Inglesi e dai Francesi dopo il 1945, nella speranza di scoraggiare l'ostilità delle colonie nei loro confronti, sortirono paradossalmente l'effetto opposto. Le maggiori opportunità di ricevere un'istruzione fecero salire il numero degli intellettuali e aumentarono la consapevolezza degli aspetti umilianti del colonialismo. Ma, soprattutto, l'adozione del regime elettorale, anch'esso introdotto nella speranza di assicurare il sostegno popolare alle potenze coloniali, non solo permise agli Africani e ad altri popoli di esprimere il loro punto di vista attraverso il ricorso alle urne, ma spinse i primi leaders locali a utilizzare le rivendicazioni indipendentiste come arma elettorale. In effetti, una volta che questi sistemi politici furono istituiti e che le potenze coloniali ebbero dichiarato che il loro fine ultimo era quello di preparare queste colonie all'indipendenza, la posizione delle potenze imperiali divenne sempre più precaria; esse furono considerate semplici 'guardiani' della situazione, moralmente obbligate a cedere il proprio potere in un futuro assai prossimo. L'iniziativa, a questo punto, passò decisamente nelle mani dei movimenti nazionalisti, anche se nella maggior parte dei casi essi erano deboli da un punto di vista sia numerico che organizzativo. A tale situazione si giunse in momenti diversi in diverse parti dell'Africa, del Pacifico e dei Caraibi. In generale veri e propri partiti politici si svilupparono dapprima, verso la fine degli anni quaranta, nei possedimenti britannici nell'Africa occidentale e nelle isole caraibiche, successivamente, verso la metà degli anni cinquanta, nei possedimenti francesi dell'Africa occidentale ed equatoriale nonché in quelli britannici dell'Africa orientale e centrale. Nel Congo Belga non si costituì alcuna organizzazione politica fino al 1959, cioè sino a un anno prima dell'indipendenza; nei territori portoghesi ciò non si verificò sino agli anni sessanta, e anche nelle piccole isole del Pacifico i movimenti nazionalisti si svilupparono soltanto nel corso di quel decennio. Quanto siano stati importanti tali movimenti nell'indurre le potenze imperiali a procedere alla decolonizzazione è ancora incerto. Per la Gran Bretagna, per la Francia e probabilmente per il Belgio, sarebbe stato certo possibile reprimerli a tempo indefinito ricorrendo alla forza militare, come fu evidenziato dal successo britannico in Kenya nei confronti dei Mau Mau, tra il 1952 e il 1956, e anche nei confronti della guerriglia alimentata dai comunisti cinesi nella penisola di Malacca durante gli anni cinquanta. Persino in Algeria l'esercito francese aveva virtualmente vinto la guerra contro l'FLN intorno al 1960. D'altro canto, il costo di queste operazioni era assai elevato e, dato che si sarebbero rivelate necessarie in molti territori coloniali, il peso gravante sugli apparati militari e sulle disponibilità finanziarie della madrepatria avrebbe rischiato di diventare inaccettabile, come avvenne per il Portogallo a metà degli anni settanta. In ogni caso, altri ordini di considerazioni risultarono probabilmente più importanti nello spingere le potenze imperiali a venire incontro alle richieste dei nazionalisti. Nei regimi democratici le forze di orientamento progressista si indignavano a sentire le cronache delle misure repressive adottate dalle autorità coloniali; nella Gran Bretagna e nella Francia degli anni cinquanta si registrò senza dubbio un notevole acuirsi dei sentimenti anticolonialisti. Inoltre, in quei paesi come la Francia e il Portogallo, dove venivano utilizzati soldati di leva per mantenere l'ordine nelle colonie, aumentarono sensibilmente le critiche dell'opinione pubblica per il dispendio di vite umane. Viceversa, una volta accettata in maniera definitiva l'inevitabilità della decolonizzazione, gli Stati imperiali ritennero opportuno preparare il terreno per amichevoli e vantaggiose relazioni postcoloniali con i futuri governanti dei territori liberati. La linea di condotta consapevolmente perseguita dalla Gran Bretagna, a partire dalla fine degli anni quaranta, e dalla Francia, a partire dalla fine degli anni cinquanta, fu la seguente: meglio procedere rapidamente alla decolonizzazione, anche nel caso di colonie non ancora giudicate mature per l'indipendenza, piuttosto che accrescere l'ostilità dei leaders nazionalisti. Soltanto i Portoghesi rifiutarono di accettare la logica di questo ragionamento, con il risultato che le loro colonie africane divennero profondamente ostili nei confronti del Portogallo e dell'Occidente intero, e caddero nella sfera d'influenza dell'Unione Sovietica e di Cuba. Analizzata in generale, dunque, la decolonizzazione dell'Africa, dei Caraibi e del Pacifico si realizzò tra la metà degli anni cinquanta e la metà degli anni sessanta, perché in quel torno di tempo una serie di elementi importanti contribuì a far apparire più vantaggioso, agli occhi delle potenze imperiali, abbandonare rapidamente le colonie piuttosto che ostinarsi a resistere il più a lungo possibile, come avevano fatto la Gran Bretagna in India e la Francia in Indocina. Adottando questo comportamento, le tre principali potenze interessate - Gran Bretagna, Francia e Belgio - riuscirono a ritirarsi con una certa dignità. A parte i loro possedimenti mediterranei, il potere fu in ogni caso trasferito a un governo eletto democraticamente; purtroppo le istituzioni propriamente democratiche erano così recenti e così debolmente radicate che solo in pochi casi sopravvissero a lungo all'indipendenza. La ricompensa ricavata dall'Europa per questa sua rapida smobilitazione fu che, almeno virtualmente, tutti questi Stati di recente formazione scelsero di rimanere entro l'orbita politica dell'Occidente democratico, mantenendo stretti legami economici col mondo capitalistico. Persino lo Zimbabwe, giunto infine all'indipendenza nel 1979 (dopo una debilitante guerriglia e dopo che il governo della Rhodesia meridionale aveva tentato di evitare il trasferimento del potere alla maggioranza nera, dichiarando nel 1965 la propria indipendenza senza il consenso della Gran Bretagna), fu presentato con tutta la pompa del rituale britannico come un regime democratico, anche se le fasi conclusive del processo somigliarono più a uno spettacolo teatrale che a un'effettiva e prolungata lotta per la libertà. Appare chiaro, quindi, che la decolonizzazione non è stata solo la diretta conseguenza né del convincimento, da parte delle potenze imperiali, che le colonie non erano più vantaggiose come in passato, né di un'irresistibile pressione esercitata su tali potenze dai movimenti nazionalisti autoctoni. L'Indocina fu probabilmente l'unico territorio coloniale da cui la madrepatria venne effettivamente espulsa in seguito a una sconfitta militare. In Birmania, dopo il 1945, gli Inglesi non cercarono seriamente di procedere a una totale rioccupazione, pur essendo in grado di farlo. In tutti gli altri possedimenti, il maggior potenziale bellico degli Stati occidentali offriva loro la possibilità di scegliere tra il rimanere, per un periodo più o meno lungo, e lo smobilitare entro breve tempo. La composizione dei fattori che determinarono il corso degli eventi fu diversa da caso a caso. Probabilmente tutte le potenze imperiali avrebbero prolungato ulteriormente la fase di preparazione delle colonie all'indipendenza qualora non fossero insorti i problemi causati dai movimenti nazionalisti; ma la velocità e la generalità del trasferimento del potere, dopo la metà degli anni cinquanta, dovettero anche moltissimo al cambiamento insorto nelle inclinazioni etiche degli Europei, a una nuova situazione economica internazionale, che fece apparire le colonie molto meno appetibili di prima, e a una valutazione realistica del futuro postcoloniale. Alla fine la decolonizzazione ebbe luogo principalmente perché gli Stati imperiali decisero che, tutto sommato, per il futuro avrebbero potuto ottenere di più lasciando le rispettive colonie da amici piuttosto che da nemici, per quanto impreparate fossero molte di esse all'indipendenza. La storia di molti paesi del Terzo Mondo è stata da allora dominata e segnata dai risultati di questa decisione. Al-Jumhūrīyah al-ʽArabīyah as-Sūrīyah). Stato dell'Asia occidentale (185.180 km²). Capitale: Damasco. Divisione amministrativa: distretti mohafazat (14). Popolazione: 21.117.690 ab. (stima 2012). Lingua: arabo (ufficiale), aramaico, armeno, circasso, curdo. Religione: musulmani (sunniti 74%, sciiti 12%), cristiani 5,5%, drusi 3%, altri 5,5%. Unità monetaria: lira siriana (100 piastre). Indice di sviluppo umano: 0,658 (118° RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSAto). Confini: Turchia (N), Iraq (E e SE), Giordania (S) e Israele (e Cisgiordania) e Libano (SW), Mar Mediterraneo (W). Membro di: Lega Araba, OCI e ONU. GENERALITÀ La Siria è il Paese arabo che più d'ogni altro ha conservato le tracce del mondo preislamico. Essa infatti ha conosciuto tutte le esperienze culturali che hanno preceduto la diffusione della cultura araba: da quelle delle varie civiltà semitiche, incentrate nella Mesopotamia (alla civiltà assirica rimanda, con un legame di tre millenni, il nome attuale), alle successive culture introdotte dalle civiltà mediterranee: fenicia, greca, romana. Soggetta a un lungo periodo di dominazione straniera, prima sotto i turchi e poi sotto il mandato francese, la Siria conobbe una generale decadenza i cui segni vennero impressi in modo marcato nella storia del Paese. Ciò nonostante, il popolo siriano non ha mai perduto la consapevolezza del proprio passato, del proprio valore e della propria ricchezza culturale, mirabilmente esemplificata dai resti delle sue città storiche, come Damasco, Palmira e Aleppo o dalle fortezze edificate dai crociati come Crac des Chevaliers. Il Paese, socialmente incentivato da una borghesia vivace e intraprendente, emancipatosi grazie alle esperienze mercantili e all'emigrazione, sensibile ai valori tradizionali del mondo arabo, ma al tempo stesso aperto al richiamo del progresso, ha partecipato attivamente nel corso degli ultimi decenni ai movimenti arabi sorti nel tentativo di rendere lo Stato siriano la potenza leader dell'area mediorientale. Di conseguenza la Siria appare un Paese profondamente coinvolto nelle intricate trame di rapporti politici, economici e religiosi della regione, impegnato a fungere da ago della bilancia nel complesso gioco degli equilibri dell'intera area mediorientale. LO STATO In base alla Costituzione, approvata per referendum il 12 marzo 1973, la Siria è una Repubblica popolare, democratica e socialista. I massimi poteri spettano al presidente della Repubblica, il cui mandato dura sette anni: il candidato alla carica viene nominato dall'Assemblea del popolo e deve essere confermato da un referendum popolare; egli esercita il potere esecutivo con l'ausilio del primo ministro e degli altri membri del governo, che egli nomina e revoca. Il potere legislativo spetta all'Assemblea del popolo (Majlis al Sha’ab), i cui 250 deputati vengono eletti a suffragio universale e diretto. Il sistema giudiziario si basa sul diritto francese e islamico e non prevede il riconoscimento della giurisdizione internazionale. Su scala nazionale operano una Corte Suprema Costituzionale (composta da membri nominati dal presidente per quattro anni), una Corte di Cassazione e le Corti d'Appello; a livello locale esistono tribunali di vario grado e titolo (per esempio Corti di prima istanza, Corti economiche ecc.) che giudicano su materie di specifica competenza. Nel Paese è in vigore la pena di morte. Le forze armate sono suddivise nei tre corpi tradizionali, a cui si aggiunge una forza paramilitare (gendarmeria). Il servizio militare è obbligatorio e dura 30 mesi (18 per la marina); le donne possono prestare servizio su base volontaria. L'insegnamento pubblico è gratuito a tutti i livelli. L'istruzione elementare, obbligatoria, ha la durata di 6 anni al termine dei quali gli alunni sostengono un esame. Nella scuola elementare l'istruzione religiosa è obbligatoria. L'istruzione secondaria, della durata di 6 anni, è divisa in 2 cicli, uno inferiore e uno superiore: il primo ha carattere orientativo, il secondo è più propriamente di indirizzo, con sezioni umanistiche e letterarie e sezioni con curriculum tecnico, agricolo o professionale. L'istruzione superiore è impartita nelle università di Aleppo (1960), di Damasco (1923), di Latakia (1971) e di Homs (1979). Tra la popolazione adulta la percentuale di analfabeti è del 16,9% (2007). TERRITORIO: MORFOLOGIA Il territorio siriano corrisponde solo in parte alla Siria antica, storica, che all'incirca comprendeva la fascia costiera occupata dai rilievi del Libano e dell'Antilibano: verso E infatti si spinge, con un caratteristico “becco d'anatra”, fino all'alta Mesopotamia, toccando il Tigri e includendo una buona parte del corso medio dell'Eufrate, mentre verso W la sua apertura al Mediterraneo è limitata dalla presenza del Libano e dall'appendice turca corrispondente al vecchio sangiaccato di Alessandretta (passato alla Turchia nel 1939), sicché si affaccia al mare per appena 183 km. Strutturalmente il territorio è formato da distese tabulari che rappresentano la sezione settentrionale del grande altopiano siro-arabico. Su queste superfici cristalline, paleozoiche, che affiorano in diversi punti del Paese, si sono sovrapposte coltri sedimentarie del Mesozoico, con prevalenza di arenarie e calcari del Cretaceo, che hanno oggi una notevole estensione, benché in parte incise e smantellate dall'erosione. Nella sezione occidentale però i tavolati sono stati interessati nel Miocene dalle fratture e dai perturbamenti tettonici che rappresentano la continuazione dei movimenti cratogeni che hanno separato l'Africa dall'Asia formando la gigantesca fossa siro-africana: a essi si deve la formazione del Gebel Aansarîyé (o Catena Alauita), che domina la costa siriana, e di Al Ghāb, la depressione percorsa dal fiume Oronte. Più a S gli stessi perturbamenti hanno originato la catena del Libano (compresa nello Stato omonimo) e dell'Antilibano, di cui appartiene alla Siria il solo versante orientale. A queste dislocazioni tettoniche si devono le manifestazioni vulcaniche che hanno formato vaste e impressionanti superfici basaltiche o rilievi di una certa imponenza, come l'isolato Jabal ad-Durūz, o Gebel Druso (1801 m). Infine la regione posta alla sinistra dell'Eufrate, l'Al Jazira (l'isola), costituisce una sezione del grande bacino sedimentario dell'Iraq; è una vasta pianura, formata da potenti strati sedimentari, che quasi insensibilmente declina verso il massiccio del Tauro, le cui acque ne hanno reso fertile la parte settentrionale. Nonostante non manchino, nella Siria occidentale, zone accidentate e montagnose, il territorio ha sostanzialmente distese piane. TERRITORIO: IDROGRAFIA L'idrografia è povera. Il fiume più importante nella sezione mediterranea è l'Oronte (al ‘Āṣī) che nasce dalla catena del Libano. Entrato in Siria raccoglie le acque di Al-Ghāb, trasformando la depressione in una fertile oasi e sfocia a valle di Antiochia (Antakya) in Turchia. L'Eufrate (Al-Furāt) nasce nella lontana Armenia, in Turchia, solca la catena del Tauro attraversando poi per oltre 650 km la sezione più interna del territorio siriano (dove però è arricchito dall'apporto del Nahr al-Khābūr) e ha quindi una posizione marginale; esso tuttavia scorre lungo una sottile ma lunga fascia di terre oasiche che rappresentano una componente importante della geografia umana della Siria. Verso l'Eufrate sono diretti i numerosi uidian che scendono dall'Antilibano e in particolare l'Uadi el Heil, costellato di pozzi e antica direttrice carovaniera. I larghi letti degli uidian portano acqua solamente dopo i brevi acquazzoni, originando specchi lacustri incrostati di depositi salini (Sabkhat Moûh, Sabkhat al-Jabbūl ecc.). L'Eufrate, soggetto a un regime di tipo pluvio-nivale, ha piene considerevoli nel periodo delle piogge (dicembre-febbraio) e dello scioglimento delle nevi (aprile-maggio), giungendo sino a una portata di 8500 m3/s, contro i 150 m3/s dei periodi di magra. TERRITORIO: CLIMA Il Paese è in gran parte arido. Solo la fascia prossima al mare gode di un clima mediterraneo, con precipitazioni invernali consistenti (860 mm annui a Latakia), temperature mitigate (nella stessa località si registrano 11 ºC in gennaio e 26 ºC in luglio). Gradatamente verso l'interno questi valori mutano, il clima si fa più continentale, arido e ingrato. A Damasco, posta ai piedi dell'Antilibano, in una località quindi già piuttosto esclusa dagli influssi mediterranei, cadono non più di 200 mm annui di pioggia e le temperature di gennaio e di luglio passano dai 6-7 ºC ai 27 ºC. Procedendo verso E si entra in un ambiente desertico, con precipitazioni scarsissime (meno di 100 mm annui) e forti escursioni termiche le quali, nonostante l'elevata temperatura estiva, mantengono la media annua sui 18-20 ºC. TERRITORIO: GEOGRAFIA UMANA Il primo popolamento del territorio siriano rimanda a epoche paleozoiche. Nel III millennio a. C. il Paese entrò nella sfera della civiltà sumerica e – in quanto parte del grande arco di terre conosciuto come il Crescente (o Mezzaluna) Fertile – fu sempre successivamente interessato agli sviluppi culturali del mondo mesopotamico. Geograficamente il ruolo che ebbe la Siria fu, sia all'epoca dei Babilonesi sia in quelle successive degli Assiri, dei Greci, dei Romani e poi degli Arabi, di punto d'arrivo dei traffici carovanieri che dall'interno dell'Asia si spingevano verso il Mediterraneo. A questa funzione si collega l'antico e sviluppato urbanesimo del Paese, esemplificato da una città come Palmira, poi irrimediabilmente decaduta, e più ancora da Damasco, floridissima sotto gli Omayyadi e che ha mantenuto intatta nel tempo la sua importanza. Sempre alla sua posizione tra Mediterraneo e Asia più interna, arabo-mesopotamica, si deve il fatto la Siria fu in ogni epoca coinvolta nelle vicende storiche di tale vasta area, le quali, anziché omogeneizzare il Paese, determinarono delle stratificazioni etniche e culturali favorite anche dalla presenza di aree montagnose conservative: basti pensare al Gebel Druso e alla Catena Alauita, che tuttora ospitano i seguaci delle rispettive sette religiose. La decadenza della Siria sotto il dominio ottomano e la concomitante, progressiva desertificazione del territorio, portarono a una cristallizzazione delle genti e dei loro patrimoni culturali. Tra questi spiccano quelli religiosi, tenendo presente che dal punto di vista etnico l'86,2% della popolazione è araba. In Siria, Paese per gran parte popolato di genti semitiche, oltre ai musulmani sunniti, che sono la maggioranza, si trovano infatti rappresentanti delle fedi più disparate. Numerose sono sia le sette musulmane (oltre a quelle ufficialmente riconosciute, come la sciita e l'ismailita, talune sono considerate eretiche, come l'alauita, la drusa, la yazida ecc.), sia le chiese cristiane: ortodosse (greco-ortodossi, armeno-ortodossi, siro-ortodossi), cattoliche (greco-cattolici, armeno-cattolici, siro-cattolici, romano-cattolici), maronita, nestoriana, protestante ecc. I gruppi religiosi spesso si distinguono anche per le attività che svolgono e la loro particolare posizione sociale; è in corso peraltro un inevitabile processo di attenuazione dei contrasti religiosi. Tra le popolazioni d'origine non semitica vi sono i curdi (7,3% degli abitanti) che in luogo dell'arabo, pressoché universalmente parlato, sono rimasti fedeli alla loro lingua. La seconda minoranza presente è quella degli armeni (2,7%), molti dei quali giunsero in Siria per sfuggire al genocidio turco, sovrapponendosi alla comunità preesistente di antica immigrazione, che vive per lo più nelle città Damasco, Aleppo). L'antica, nobilissima “aristocrazia del deserto”, quella dei cammellieri nomadi, i cui gruppi principali sono gli anezeh e gli shammar, sfruttano le zone interne con migrazioni pendolari da S a N, dai deserti siro-arabici alle pianure steppiche; ai loro spostamenti si adeguano i sulaib, nomadi artigiani e commercianti. Questi gruppi nomadi hanno avviato a una progressiva sedentarizzazione. La popolazione è insediata per la maggior parte nella Siria occidentale e si condensa soprattutto nell'Antilibano, nella valle dell'Oronte e lungo la zona costiera. Popolosa è anche tutta la fascia settentrionale, mentre nella sezione orientale, semidesertica, gli abitanti si concentrano quasi unicamente lungo il corso dell'Eufrate. Pertanto la densità media del Paese, di 107 ab./km², ha poco significato. La Siria ospita oggi una popolazione che è il quadruplo di quella che aveva alla fine dell'unione siro-egiziana: se si pensa che, secondo varie stime, all'epoca romana contava ben 8 milioni di ab., si può avere un'idea dello spaventoso regresso rappresentato, in ogni ambito, dal lungo dominio ottomano. Il ritmo di incremento demografico è stato molto elevato negli ultimi anni del XX secolo, raggiungendo il 2,6% di crescita annua nel periodo dal 1994 al 1999, scendendo poi al 2,4% nel quinquennio 2000-2005. La mortalità molto bassa e la forte natalità spiegano tale indice, cui contribuisce anche una certa immigrazione di ritorno di siriani dall'estero. Già a partire dal XIX secolo, la Siria aveva infatti promosso correnti migratorie verso l'Africa, L'Europa e l'America, dove i siriani, perpetuando un'antica tradizione mercantile legata ai famosi bazar, si sono inseriti nell'economia di molti Paesi con le loro attività commerciali, mentre più tardi, dagli anni Sessanta e Settanta del Novecento, l'emigrazione verso i Paesi del Golfo (Arabia Saudita e Kuwait) ha portato numerosi lavoratori siriani nell'industria petrolifera. Infine si calcola che alcune centinaia di migliaia siano gli immigrati siriani in Libano e Giordania; l'emigrazione è attualmente attenuata. Nel Paese vivono però numerosi profughi palestinesi (più di 400.000). Nei primi anni del sec. XXI si sono aggiunti profughi sudanesi, afgani, somali e un nutrito gruppo di iracheni fuggiti dalle loro case dopo il 2004 (secondo alcune stime sarebbero circa 500.000) oltre a molti palestinesi che risiedevano in Iraq. Gli abitanti vivono per gran parte in villaggi la cui ubicazione è in genere dettata dalla presenza dell'acqua, costituiti da case di fango che nel Nord assumono la tipica forma ad alveare (tetto a ogiva); villaggi compatti con abitazioni in pietra si trovano sui rilievi, rifugio di antiche comunità religiose. Sul finire del millennio la popolazione urbana è aumentata per effetto di un'immigrazione dalle campagne e come conseguenza di trasformazioni sostanziose, anche se non radicali, e nel 2005 rappresentava poco più della metà dei siriani. L'urbanesimo, come già detto, ha origini antichissime e ha conservato certi aspetti caratteristici del passato. Le città siriane sono per lo più centrate su un tell, un'altura su cui si trovano le tracce di antichi insediamenti o i resti di vecchie fortezze islamiche o crociate (è qui il famosissimo e poderoso castello fortificato noto come “Crac dei Cavalieri”); alla base è il suq, il bazar, secondo una tradizione che risale all'epoca dei traffici carovanieri, cui greci, romani e soprattutto gli arabi diedero splendidi impulsi, e attorno i vari quartieri abitativi. Tutte le grandi città siriane sono nate come centri carovanieri; così l'antica Palmira, così Damasco, Aleppo, Homs, Hamāh ecc. La capitale, Damasco, centro preistorico già menzionato in epoca sumerica, è stata privilegiata non solo dalla posizione nodale tra le direttrici trasversali e longitudinali, ma anche dalla felice ubicazione topografica, ai piedi dell'Antilibano, su un fertile conoide di terre irrigue. Essa ha funzioni molteplici: finanziarie, culturali, commerciali ed è anche sede di attività industriali. Fu sempre importante, pur inevitabilmente con fasi alterne, raggiungendo il massimo splendore sotto gli arabi. Segue Aleppo, nella Siria settentrionale, sull'asse ferroviario proveniente dalla Turchia e che porta in Iraq; è anch'essa antica di origine e nobile di tradizioni culturali, oggi attiva in vari settori industriali. Altre città importanti sono Homs e Hamāh, nella fertile e popolata valle dell'Oronte, e Latakia, l'antica Laodicea, massimo centro costiero. TERRITORIO: AMBIENTE Il paesaggio della Siria interna settentrionale, in corrispondenza dell'ampio massiccio del Tauro, al confine con la Turchia, è steppico, con villaggi d'oasi orlati da pioppi lungo i corsi d'acqua temporanei; a S, al di là dell'Eufrate, si hanno distese desertiche, con hamada di rocce gessose o arenacee, oppure con superfici di ciottoli lavici. Sui versanti dell'Antilibano i suoli rossi, d'origine calcarea, ospitano una vegetazione arborea mediterranea (querce e piante di coltivazione come mandorli, carrubi ecc.) che si fa ricca nel Gebel Aansarîyé. In tutta la sezione occidentale macchie di vegetazione riparia, di pioppi, olmi, alberi da frutto si raccolgono lungo i corsi d'acqua e i canali d'irrigazione, mentre per il resto si hanno estese colture legnose mediterranee, tra cui spiccano gli olivi. Mammiferi e rettili selvatici sono quasi del tutto scomparsi; prevalgono gli animali da allevamento come cammelli, asini, capre, pecore e cavalli. Lo sfruttamento agricolo, l'inquinamento dei terreni e delle acque dovuto alla fuoriuscita di petrolio contribuiscono ad aggravare i problemi di desertificazione ed erosione del suolo. Sono state istituite in Siria varie aree protette, che coprono complessivamente lo 0,7% del territorio. ECONOMIA: GENERALITÀ La Siria presenta un'economia strutturalmente fragile. Le possibilità agricole sono limitate dalle non favorevoli condizioni climatiche; inoltre, se si eccettuano giacimenti petroliferi non certo di particolare rilievo, il Paese ha ben modeste risorse minerarie. Non sono mancate varie iniziative del governo volte a modernizzare le tradizionali attività agricole e a dare avvio all'industrializzazione del Paese, ma tali iniziative hanno trovato sul loro cammino ostacoli assai ardui. Alle difficoltà politiche d'ordine interno, espresse da forti tensioni nell'ambito dello stesso partito al potere, il Baʽth, si sono infatti aggiunte quelle, enormi, d'ordine internazionale. La Siria infatti è forse lo Stato arabo che più drasticamente ha subito le ripercussioni del lungo e travagliato conflitto con Israele; inoltre il diretto intervento siriano nel Libano dal 1976 – conseguenza del coinvolgimento della Siria nella complessa crisi mediorientale – ha causato un ulteriore aggravio per l'economia e la stabilità del Paese; le spese per la difesa hanno sempre costituito una voce importante del PIL, a scapito di altri comparti. Nella seconda metà degli anni Ottanta ed ancor più all'inizio del decennio seguente il Paese ha sperimentato infine una discreta ripresa economica, favorita dall'incremento dell'estrazione petrolifera, dalla promulgazione di una nuova legge sugli investimenti, da ulteriori misure di liberalizzazione e dalla concessione di aiuti e crediti da parte dei Paesi occidentali. Negli anni Novanta il crollo dei regimi comunisti dell'Europa dell'Est e la conseguente interruzione dei rapporti privilegiati che la Siria intratteneva con essi, hanno reso necessaria una riforma dell'economia siriana, fino ad allora racchiusa entro gli schemi della pianificazione centralizzata. La decisione di mutare il modello di sviluppo economico e di concedere, sia pure in misura limitata, l'apertura all'economia di mercato non è però derivata esclusivamente da fattori extra-economici esterni, bensì è stata adottata per controbilanciare la recessione affermatasi sul finire degli anni Ottanta, quando si è registrata una drastica riduzione del PIL pro capite. Ridotte le esportazioni verso i Paesi dell'Europa dell'Est dal 40% al 5%, la Siria ha accresciuto in maniera progressiva, la quota di esportazioni dirette verso l'UE, nella prospettiva di un accordo di associazione la cui concreta realizzazione è stata ostacolata dal pesante debito che ha contratto nei confronti di alcuni Paesi dell'UE (Germania e Francia in particolare). Questo indebitamento ha compromesso l'erogazione di altri investimenti da parte europea, proprio nel momento in cui anche i Paesi arabi hanno notevolmente ridotto il flusso dei loro finanziamenti. La difficoltà di reperire fondi per sostenere la crescita economica, aggravata dalla prospettiva dell'esaurimento delle riserve petrolifere entro il secondo decennio del Duemila, hanno spinto il governo a varare una serie di riforme nell'ambito petrolifero per incentivare, da parte delle imprese straniere, l'attività di ricerca di nuovi giacimenti. Negli anni Novanta le autorità hanno cercato di favorire il dialogo con altri Paesi del Medio Oriente, con l'Unione Europea e con le organizzazioni internazionali per incentivare gli scambi commerciali e soprattutto trattare la questione del debito estero contratto nei decenni precedenti. Dal Duemila inoltre il Paese si è avviato con maggior vigore verso la trasformazione e modernizzazione della struttura economica centralizzata, che appare assolutamente inefficiente. Tuttavia il controllo dello Stato è ancora esteso e vi sono forti resistenze ai tentativi di apertura al settore privato e agli investimenti stranieri. L'agricoltura e il terziario sono settori prioritari nei programmi di sviluppo governativi. Per quanto riguarda la prima, i progetti sono finalizzati a migliorare l'efficienza e la produttività per favorire le esportazioni ma soprattutto garantire l'autosufficienza alimentare al Paese, tenendo presente che i prezzi di alcuni prodotti sono calmierati, costituendo così una voce rilevante nel quadro del bilancio statale. Dall'inizio del Duemila il Paese ha eliminato alcune restrizioni e si è parzialmente aperto al mercato internazionale e agli investimenti esteri, con la creazione di un''agenzia dedicata, la Syrian Investment Authority; tra il 2006 e il 2007 è stata ridiscussa la politica relativa al commercio internazionale, che stabilisce in modo netto quali prodotti possono essere esportati e soprattutto importati; la “lista nera” delle merci vietate è stata drasticamente ridotta. Il turismo è in crescita e la costruzione di infrastrutture residenziali, commerciali e alberghiere ha trascinato il comparto delle costruzioni. Ancora piuttosto basso risulta però il PIL, che nel 2008 è stato di 54.803 ml $ USA (2.757 $ USA il PIL pro capite). ECONOMIA: AGRICOLTURA, ALLEVAMENTO E PESCA Il 17% della popolazione attiva è tuttora occupato nell'agricoltura, che costituisce la base dell'economia del Paese; tuttavia nel suo complesso non è un settore particolarmente fiorente, pur presentando aspetti in vario modo differenziati in relazione all'ambiente naturale e alle trasformazioni apportate dall'uomo. L'irrigazione soprattutto è valsa a rendere coltivabili superfici discretamente vaste, aumentando così, a volte in modo anche considerevole, talune produzioni; ma, globalmente intesa, l'agricoltura appare poco modernizzata, attestata anzi su tecniche tradizionali scarsamente redditizie, anche perché il prevalente regime di conduzione agraria – la piccola proprietà – non facilita l'introduzione su vasta scala di nuovi metodi colturali. L'abolizione dell'antico latifondo è stato un sensibile progresso, ma la successiva frammentazione fondiaria non ha sostanzialmente modificato il diffuso immobilismo del settore; più economicamente e socialmente incisiva è stata la creazione di cooperative, favorite mediante agevolazioni creditizie e assistenza tecnica. Comunque il problema certamente più grave da risolvere per l'agricoltura siriana è l'insufficienza della rete d'irrigazione, addirittura determinante per un Paese che solo lungo la costa e nella fascia settentrionale ha precipitazioni sufficientemente copiose (in tali aree anzi i rendimenti sono elevati e le colture si praticano a rotazione). Il governo ha portato avanti a partire dagli anni Sessanta del Novecento programmi d'irrigazione, riscattando una parte del territorio che altrimenti sarebbe rimasto inutilizzato. Ciò è stato reso possibile mediante la realizzazione di una serie di dighe, atte anche a fornire elettricità alle industrie; la più importante è quella di Thawrah sull'Eufrate (costruita con l'aiuto sovietico), che ha dato origine al lago al-Asad. Il sistema d'irrigazione più antico è quello delle norie: si tratta di ruote di legno spesso gigantesche (una, funzionante ad Hamāh, sull'Oronte, sin da epoca medievale, ha il diametro di oltre 20 m), munite di una serie di mastelli anch'essi in legno; quando i mastelli si trovano in basso, si riempiono d'acqua e allorché giungono alla sommità la riversano in un canaletto che convoglia l'acqua alla terra da irrigare. Ormai ca. il 30% della superficie territoriale è coltivato; di esso buona parte è occupata da frumento e da orzo, cereali entrambi che resistono bene alla siccità e che sono diffusi in tutta la fascia occidentale e settentrionale dai tipici suoli rosso-bruni. Si coltivano anche, tutti destinati al consumo interno, mais e miglio e in certe aree irrigue riso, quindi ortaggi, specie pomodori e cipolle, poi ceci, fagioli, fave, lenticchie ecc., nonché patate. Massima coltura commerciale del Paese, destinata in larga misura all'esportazione, è quella del cotone che è diffusa soprattutto nella valle dell'Oronte; discrete, specie nel distretto di Al-Lādhiqīyah, le coltivazioni del tabacco e della barbabietola da zucchero. Più rilevanti sono però le tipiche colture arboree mediterranee, come quelle della vite e dell'olivo (di cui è il primo produttore asiatico); altre oleaginose presenti sono il sesamo e le arachidi. Buoni raccolti danno infine i frutteti: fichi, che ben si adattano alla siccità, agrumi, albicocche, pere, prugne, pesche, arance, pistacchi ecc. Le foreste, estese nell'antichità, sono ormai pressoché scomparse, ridotte a pochi lembi nei distretti di Al-Lādhiqīyah, Hims, Hamāh e Aleppo. Prati e pascoli coprono invece quasi il 45% della superficie territoriale; sono sfruttati sia dalla pastorizia stanziale sia da quella nomadica. Date le condizioni climatiche e pedologiche, prevalgono gli ovini e i caprini; oltre alla lana essi forniscono, come in tutti i Paesi arabi, l'alimento carneo fondamentale. Diffuso è però anche l'allevamento dei volatili da cortile, mentre la pesca ha scarso rilievo. ECONOMIA: INDUSTRIE E RISORSE MINERARIE La Siria non è particolarmente fornita di risorse minerarie; confrontati con l'enorme produzione di altri Paesi arabi, i quantitativi di petrolio estratti nella Siria nordorientale non possono certo essere considerati elevati, tuttavia rappresentano la principale fonte per il consumo interno. Per il resto, si hanno solo modesti giacimenti di asfalto, fosfati, salgemma e gas naturale. È in funzione un oleodotto di 650 km, che porta il petrolio greggio alla raffineria di Homs e da qui al porto di Tartūs; il Paese è inoltre attraversato da due oleodotti: uno proviene da Karkūk (Iraq) ed è diretto alla citata raffineria di Homs, dove si biforca nei tronchi Homs-Banias e Homs-Tripoli (Libano), l'altro, assai più breve, taglia l'estrema sezione sudoccidentale della Siria provenendo dall'Arabia Saudita e porta il greggio a Saida, nel Libano (entrambi questi oleodotti però sono stati periodicamente interrotti a causa del conflitto libanese e della guerra in Iraq). Modesta, anche se sensibilmente aumentata, è la produzione di energia elettrica; un tempo essenzialmente di origine termica, essa è oggi, grazie alla realizzazione di varie centrali idroelettriche, anche di origine idrica. Tuttavia la centrale di Thawrah non è in grado, come previsto al momento della sua costruzione, di far fronte al fabbisogno interno. Una nuova centrale situata nei pressi Dayr az-Zawr dovrebbe sopperire a parte delle necessità del Paese; altri progetti, anche relativi allo sfruttamento dell'energia eolica, sono in fase di discussione. In stretta relazione con l'incremento della produzione d'energia è da porre lo sviluppo industriale. Benché le ingenti spese militari abbiano posto a lungo un forte freno agli investimenti produttivi, la Siria prosegue nel proprio intento di consolidare le strutture industriali. I settori più sviluppati riguardano naturalmente la lavorazione dei prodotti nazionali; presentano un certo rilievo l'industria tessile, specie quella cotoniera e, in seconda posizione, quella laniera, con principali impianti a Damasco e ad Aleppo e l'industria agroalimentare, con complessi molitori, oleifici, zuccherifici, birrifici, tabacchifici, impianti per l'imbottigliamento di acque minerali presenti sia nei popolosi distretti occidentali sia all'interno, nei distretti interni, presso Ar-Raqqah e Dayr az-Zawr; si annoverano inoltre cementifici, concerie, stabilimenti chimici per la produzione di fertilizzanti, soda caustica e acidi (solforico, cloridrico e fosforico), meccanici (che costruiscono trattori, frigoriferi, lavatrici, televisori),, siderurgici (ghisa e acciaio), oltre alla citata raffineria di Homs e a quella di Banias. Tra il 2006 e il 2007 è stata inaugurata la raffineria di Gbeibe, nel Nord-est. ECONOMIA: COMMERCIO, COMUNICAZIONI E TURISMO Abbastanza vivaci sono i commerci; la Siria esporta prevalentemente petrolio e derivati; seguono, a grande distanza, bestiame (caprini e ovini), cotone e prodotti ortofrutticoli (in particolare olio d'oliva), mentre le importazioni sono essenzialmente costituite da macchinari e prodotti industriali. L'interscambio si svolge soprattutto con vari Paesi europei (Francia, Italia, Ucraina), Arabia Saudita, Turchia, Cina e Corea del Sud (questi ultimi due per l'import) ma le esportazioni sono ancora inferiori alle importazioni. La Siria è stata sin dall'antichità un Paese di transito e molte delle attuali strade si appoggiano sui tracciati delle vecchie carovaniere. Le vie di comunicazione sono state sviluppate attraverso programmi governativi, miranti al potenziamento sia della rete stradale sia di quella ferroviaria. Quest'ultima risulta comunque deficitaria, sviluppandosi per circa 2700 km; il tronco principale collega Aleppo con Homs e Damasco; da esso si dipartono varie diramazioni che si raccordano con le linee dei Paesi vicini: Turchia, Iraq, Libano e Giordania. La rete stradale si aggira sui 94.200 km e consente di raggiungere abbastanza agevolmente tutti i maggiori centri del territorio. I servizi marittimi fanno riferimento al porto di Latakia, seguito da quello eminentemente petrolifero di Banias, nonché dagli scali di Tartūs e Jableh; anche in questo caso il controllo statale, le regole tariffarie e soprattutto la concorrenza dei Paesi limitrofi rendono questi porti poco competitivi. Ben rappresentate sono le comunicazioni aeree, che fanno capo soprattutto agli aeroporti internazionali di Damasco, Aleppo e Latakia; compagnia di bandiera è la Syrian Arab Airlines. Di importanza crescente è il turismo: le potenzialità di sviluppo fornite dalla ricchezza di beni archeologici e dalle buone infrastrutture trovano però ancora limitazioni nella carenza delle attrezzature ricettive e più in generale nelle condizioni politiche. La maggior parte dei turisti proviene dai Paesi arabi ma sono in aumento gli europei. Le prime banche private sono state ammesse solo nei primi anni del Duemila; gli stranieri non possono detenere quote di maggioranza di banche e istituti di credito (che possono comunque offrire solo piccoli prestiti). PREISTORIA Il territorio siriano fu sicuramente abitato fin dai più remoti tempi paleolitici: lo attestano soprattutto i resti dei livelli più bassi della stratigrafia messa in evidenza nella località di Jabrud. Numerose sono le testimonianze relative al Paleolitico inferiore, con diversi giacimenti in cui è stato possibile stabilire una sequenza dell'evoluzione dell'Acheuleano, in cui sono presenti complessi dell'Acheuleano antico, come a Sitt Markho nella bassa valle del Nahr el Kebir; dell'Acheuleano medio, come a Berzine e a Latamne a nord di Hama; dell'Acheuleano superiore e finale, come a Gharmachi e Douara, non lontano dall'oasi di Palmira, a Abou Jamaa sull'Eufrate e in alcuni dei ripari dell'Uadi Skifta, vicino a Jabrud. Seguono lo Jabrudiano, industria su scheggia e bifacciali con datazioni comprese intorno a 150.000 anni da oggi, noto in diverse località tra cui El Kowm, e lo Hummaliano, industria su grandi lame datata intorno a 100.000 anni. Livelli musteriani, talvolta di tecnica levallois, sono noti a Douara, El Kowm e nell'Uadi Skifta e in qualche altra località. Nei due ultimi siti citati, sono stati studiati complessi del Paleolitico superiore ed epipaleolitici (Kebariano geometrico), questi ultimi datati tra circa 12.000 e 10.500 anni da oggi. Non meno copiose le testimonianze risalenti a tempi neolitici, per i quali può distinguersi, oltre a una ricca facies del Natufiano (IX-VIII millennio a. C.), individuata soprattutto negli importanti scavi di Mureybet, un periodo preceramico, risalente agli inizi del VII millennio a. C., messo in luce a Tel Ramad e a Ras Shamra, e un successivo neolitico evidenziato in queste e in altre località, specialmente della zona di Antiochia, in cui la varietà dei prodotti fittili consente la distinzione di aspetti culturali diversi. Per il successivo periodo eneolitico di particolare rilievo sono le scoperte fatte ad Halaf, un tell delle regioni settentrionali. Nel IV millennio si nota, in tutta la regione, l'influenza della cultura mesopotamica di Obeid. STORIA: DALLE ORIGINI ALLA CONQUISTA ROMANA La storia della Siria è inizialmente la storia di un complesso di piccoli territori e di stati, la maggior parte dei quali formati da una città od oasi centrale: Damasco, Hama, Homs, Qatna, Aleppo, Karkemiš, Palmira e sulla costa Ugarit, Arwad, Byblos ecc. Il territorio costituiva un'importante zona di incrocio con grandi strade carovaniere, quindi spesso soggette all'influsso di genti straniere, innanzitutto Semiti (Cananei, Aramei e Arabi) ma anche Egiziani, Hurriti e Ittiti, Urartei e Sciti, Macedoni e Greci. Con la conquista di Alessandro Magno (332 a. C.) la Siria (che era stata una satrapia dell'Impero persiano dalla conquista di Ciro, 538) divenne una satrapia dell'Impero greco-macedone. Dopo le lotte tra i diadochi venne in possesso di Seleuco che iniziò la dinastia dei Seleucidi, regnando sino al 64 a. C. su un territorio comprendente la Sogdiana, la Battriana, l'Aracosia, la Geodrosia, la Mesopotamia, l'attuale Siria e parte dell'attuale Turchia. Nell'organizzazione seleucidica il territorio comprendeva la “terra regale” (basiliké chora), enorme latifondo amministrato dal sovrano, e le città (poleis) con statuti particolari; il territorio era amministrativamente diviso in satrapie ed eparchie. L'ellenizzazione apparve ai Seleucidi lo strumento per rendere omogeneo un territorio che comprendeva popoli molto diversi per lingua, religione, appartenenza etnica. L'ellenizzazione voluta dai Seleucidi fu però spesso imposta con la forza causando gravi lacerazioni come l'opposizione ebrea ad Antioco Epifane. Come Alessandro, infatti, essi attuarono l'ellenizzazione attraverso la fondazione di città greche (Antiochia, Laodicea, Seleucia) ma non riuscirono a integrare l'elemento agricolo con l'elemento urbano ellenico o ellenizzato. Tutto ciò costituì l'interiore fragilità di questo impero che si frantumò rapidamente in seguito all'intervento romano, alla secessione della provincia partica (che staccò la Mesopotamia) e alla riacquistata autonomia della Giudea. Infine gli ultimi Seleucidi furono vittime di guerre civili e la Siria fu conquistata da Tigrane di Armenia e subito dopo dai Romani comandati da Lucullo (69 a. C.). Nel 63 a. C. nell'ambito del riordinamento dell'Asia Minore attuato da Pompeo, la Siria divenne provincia romana e l'Eufrate fu stabilito come confine tra i Romani e i Parti che spesso impegnarono militarmente i Romani. Nel 194 d. C. Settimio Severo divise la Siria in due province (Coelesyria o Syria Maior a Nord e Syria Phoenice a Sud). Nel 260 d. C. i Persiani conquistarono Antiochia e lo stesso imperatore Valeriano fu catturato. Costanzo II creò nella Coelesyria l'Augusta Euphratensis. Nel sec. V la Syria era divisa in cinque territori. STORIA: DALL’IMPERO D’ORIENTE ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE Entrò quindi a far parte dell'Impero d'Oriente, non senza subire invasioni sassanidi, l'ultima delle quali durò sino al 628. Già prima di Maometto la Siria aveva subito qualche infiltrazione araba; ma solo dopo la morte del Profeta gli Arabi ne iniziarono la conquista, non con un preciso scopo politico, ma solo per impadronirsi di luoghi e beni più appetibili di quelli del deserto. Le vittorie di Khālid ibn al-Walīd ad Agnadayn (634) e Marg as-Suffar (635) aprirono la via di Damasco, che si arrese nel settembre 635. Un forte esercito bizantino, condotto dallo stesso fratello dell'imperatore Eraclio, fu disfatto sullo Yarmuk (636) e la Siria fu definitivamente perduta per Bisanzio, evento a cui la popolazione, vessata da un'avida amministrazione e fedele a un credo monofisita che Bisanzio rifiutava, si rassegnò senza drammi. Se da principio gli Arabi si accamparono in Siria come un esercito in terra nemica, la situazione mutò quando un governatore arabo della Siria, Muʽāwiyah, divenne califfo e fondò una dinastia, detta degli Omayyadi. Come il suo predecessore ʽAlī si era appoggiato alle forze dell'Iraq, così Muʽāwiyah stabilì in Siria la base del suo potere. A seguito di ciò, non solo Damasco divenne la splendida capitale del nascente Impero islamico, ma l'elemento siriano, più colto e più aperto dei dominatori, fu portato ai vertici dell'amministrazione, divenendo la classe dominante dell'Impero. Restò tale sino al califfato di Marwān (744-750), l'ultimo omayyade, che trasferì la capitale a Harran in Mesopotamia. Quando poi gli Abbasidi vollero governare il mondo islamico da Kufa e, successivamente, da Baghdad, la Siria decadde a semplice provincia, invisa spesso ai califfi per il suo spirito ribelle e per la continua attesa di un messia che la liberasse dal giogo iracheno. Mentre l'Impero islamico tendeva a iranizzarsi sempre più, la Siria, pur rimanendo in disparte, conservava in modo definitivo la lingua e la cultura arabe; e intanto la religione di Maometto vi si diffondeva ampiamente senza però distruggere un cristianesimo rimasto ben vivo. Il dominio di Baghdad era più volte interrotto dal sorgere di dinastie di governatori resisi autonomi, come i Tulunidi (fine sec. IX), gli Ikhsididi (metà sec. X), gli Hamdanidi (seconda metà sec. X); veniva poi brutalmente scosso dalla conquista, del resto precaria, dei Fatimiti d'Egitto (fine sec. X), e finiva per sempre con l'avvento dei Turchi Selgiuchidi (sec. XI), che a loro volta, discordi e disorganizzati, furono battuti dai crociati (fine sec. XI-prima metà sec. XII). Il predominio delle nazioni latine durava poco più di un secolo, duramente insidiato da Saladino e dai suoi successori: alla fine del sec. XIII i sultani mamelucchi d'Egitto ne cancellavano le ultime tracce. Saccheggiata dai Mongoli (1299-1303), invasa da Tamerlano (1399-1400), la Siria finiva sotto lo scettro ottomano (1516); cominciava così un periodo di decadenza e di sfruttamento senza contropartite. Tra il 1830 e il 1840 il Paese cadde di nuovo sotto il dominio egiziano, tornando poi alla restauraizone del dominio ottomano con il permesso turco di installare missioni e collegi cristiani. Nel 1860 fu repressa una rivolta dei cristiani maroniti che si erano ribellati alla classe dominante (Drusi) e al sistema feudale. Nella seconda metà del sec. XIX si ridestava in Siria un forte movimento nazionalistico: anche gli aspri contrasti fra musulmani e cristiani si placavano dinanzi alla necessità di una resistGiovani Turchienza contro le repressioni di ʽAbd ül-Ḥamid II e poi dei . STORIA: IL NOVECENTO Sconfitta la Turchia nella prima guerra mondiale, l'emiro Fayṣal, figlio del re del Higiaz, fidando nelle promesse inglesi, entrò in Damasco (ottobre 1918), e si proclamò (1920) re di Siria. Nello stesso anno la Francia, già d'accordo con l'Inghilterra, cacciò Fayṣal e si fece affidare dalla Società delle Nazioni la Siria e il Libano in “mandato”. La tutela francese fu utile allo sviluppo economico e culturale del Paese; ma gli incidenti, anche gravi, non mancarono. La seconda guerra mondiale segnò la fine del predominio della Francia. I dirigenti della nuova Siria, reclutati dai ranghi della borghesia nazionalista, non si rivelarono all'altezza della difficile situazione interna e internazionale sviluppatasi dopo il 1945. Nel 1949 tre colpi di stato militari movimentarono le cronache. I regimi militari che si susseguirono, in qualche caso sotto vesti civili, fino al 1954, furono ispirati soprattutto da un riformismo paternalista poco al passo con i tempi e si rivelarono dittature personali incapaci di creare partiti di massa. Nel 1954 una vasta campagna di manifestazioni popolari riportò la Siria alla democrazia parlamentare. Seguirono quattro anni molto agitati: la Siria, che era divenuta per gli Stati Uniti una pedina importante in un sistema mediorientale in crisi, conobbe al suo interno l'emergenza di una forte corrente nazionalista e socialista guidata dal partito Baʽth. Pressioni internazionali e movimenti interni sfociarono nella decisione di fondere la Siria e l'Egitto nella Repubblica Araba Unita (1958). L'unione siro-egiziana si spezzò nel 1961, dopo tre anni di soffocante centralismo cairota. Dopo una parentesi moderata, nel 1963 il Baʽth, alleato dei nazionalisti filonasseriani, ritornò al potere. Il fallimento dei negoziati per una federazione tripartita tra Siria, Egitto e Iraq portò la Siria a una fase di isolamento. Lo stesso Baʽth fu travagliato da lotte intestine tra moderati e progressisti, militari e “civili”. L'“uomo forte” Amīn el-Ḥafīz rimase al potere fino al 1966, quando fu sostituito dall'ala di sinistra del partito. Nel 1967 la Siria s'impegnò a fianco dell'Egitto in una sfortunata guerra contro Israele, che costò la perdita delle alture del Golan. Nel 1970 il generale al-Assad Hāfiz mise da parte i progressisti, accusandoli di eccessivo dirigismo e di troppo spiccate tendenze marxiste, e inaugurò una fase più liberale. Nel 1973 Assad si alleò con gli egiziani nel tentativo, fallito, di riprendere il Golan. Intransigente oppositrice agli accordi di Camp David (vedi Egitto), la Siria si inserì (1976), con l'invio di truppe, come decisiva forza mediatrice nella guerra civile libanese. Mentre i legami con l'URSS (1980) diventavano sempre più stretti, la Siria si ritrovò isolata dalla maggioranza dei Paesi arabi per aver fatto fallire al vertice di Fès (1981) il progetto di pace saudita per il Medio Oriente; rafforzò, invece, la propria posizione nel Libano, specie dopo il ritiro del contingente di pace statunitense, britannico, francese, italiano e – parzialmente – delle truppe israeliane. Sul piano interno, dal 1979, attraverso azioni terroristiche da un lato e una non meno violenta repressione dall'altro, si accentuavano i contrasti tra le organizzazioni islamiche, soprattutto i “Fratelli musulmani”, e il regime di Assad, espressione della setta degli Alawiti. La presenza in territorio libanese si era quindi fatta più intensa nella seconda metà del decennio, dando origine a violenti combattimenti con alcune delle fazioni in lotta (in particolare contro gli sciiti filoiraniani di Hezbollah, nel 1987, e contro le truppe cristiane del generale Aoun, nel 1989) nonché provocando forti contrasti con l'Iraq, concorrente diretto della Siria per l'acquisizione del ruolo di potenza regionale. Schierandosi con la coalizione internazionale intervenuta contro l'invasione irachena del Kuwait (agosto 1990), la Siria trovava modo di realizzare tali suoi obiettivi: l'interessato favore dei Paesi occidentali le aveva infatti permesso di accrescere la propria influenza in Libano fino a vincere le ultime resistenze e ad assoggettare lo stato alla propria tutela, emblematizzata dalla firma di un trattato di fratellanza e cooperazione fra i due governi (maggio 1991). Ne risultava accresciuto, di conseguenza, il ruolo del Paese nel processo di pacificazione del Medio Oriente: una rappresentanza della Siria aveva così attivamente partecipato alle fasi iniziali dell'apposita conferenza internazionale, avviata a Madrid nell'ottobre 1991. Le trattative dirette tra Siria e Israele rappresentavano un indubbio passo avanti nel processo di distensione nell'area, ma esse segnavano il passo per la mancanza di accordo sulle alture del Golan, territorio siriano, cui lo stato ebraico non voleva rinunciare ritenendole essenziali alla sua sicurezza militare. Nonostante la situazione di stallo, al-Assad ribadiva comunque al presidente statunitense W. J. Clinton (gennaio 1994) la volontà della Siria di giungere a un accordo di pace con Israele. Dopo l'assassinio del premier israeliano Y. Rabin (novembre 1995) le delegazioni siriana e israeliana si incontravano a Wye Plantation, nel Maryland (USA); al termine dei colloqui (dicembre 1995) i diplomatici delle due parti dichiaravano la loro intenzione di proseguire nei negoziati al fine di risolvere la questione del Golan e di riportare la pace al confine meridionale del Libano, teatro di continui scontri tra i guerriglieri islamici Hezbollah e le truppe di Tel Aviv. Nel 1997 Siria e Iraq annunciavano la riapertura delle frontiere, chiuse dal 1982 per l'appoggio di Damasco all'Iran nella guerra contro l'Iraq. STORIA: IL DUEMILA Nel dicembre 1999 riprendevano i negoziati tra Siria e Israele, con il summit di Washington, dove, nel gennaio 2000, grazie anche alla mediazione del presidente Clinton, il ministro degli esteri, Farouk al Shara, incontrava il premier israeliano E. Barak con il quale affrontava il problema del ritiro di Israele dalle alture del Golan, mentre dal canto suo la Siria si impegnava ad allontanare le sue forze armate dal confine. I negoziati però si interrompevano e, nel giugno 2000, il presidente al-Assad, riconfermato attraverso un referendum per il quinto mandato, moriva. Gli succedeva il figlio Bashar, nomina designata dal Parlamento e confermata, formalmente, da successive elezioni presidenziali. Nell'aprile 2001, in seguito della crescente opposizione cristiano-maronita alla presenza siriana nei dintorni di Beirut e, anche in conseguenza del nuovo corso politico intrapreso da Bashar, iniziava il ritiro dell'esercito siriano dal Libano. Il governo siriano si era opposto alla politica mediorientale degli Stati Uniti nel 2001-2003 (interventi militari in Afghanistan e Iraq, sostegno a Israele). Negli ultimi anni la Siria si era infatti riavvicinata all'Iraq, avviando col regime iracheno rapporti commerciali nell'ambito del programma Oil for food. Nel 2003, durante la crisi irachena, il governo degli Stati Uniti accusava più volte la Siria di aver sostenuto in vario modo il regime iracheno e di continuare a proteggere le organizzazioni terroristiche internazionali. Il presidente Bashar, dal canto suo, assicurava che la Siria non forniva assistenza ai criminali di guerra iracheni. Infatti nel gennaio 2004, Bashar compiva un viaggio in Turchia che aveva lo scopo di riappacificare i due Paesi e si impegnava nella lotta al terrorismo islamico, soprattutto grazie all'operato dei suoi servizi di intelligence. In aprile anche la Siria subiva un attentato terroristico nella capitale. Nel febbraio 2005, dopo l'assassinio del ex premier R. Hariri a Beirut, la comunità internazionale faceva pressioni su Damasco affinché ritirasse dal Libano le rimanenti truppe e il personale dei servizi segreti. In maggio il governo annunciava la ripresa delle relazioni diplomatiche con l'Iraq, interrotte dopo la prima guerra del Golfo. Nel 2007 Siria e USA nonostante le difficoltà riprendevano i contatti diplomatici. Alle elezioni politiche dello stesso anno veniva confermata la maggioranza assoluta del partito del presidente che veniva riconfermato con oltre il 97% dei voti. In novembre l'aviazione israeliana bombardava una base militare nel nord del Paese, ma nonostante ciò i due Paesi annunciavano di aver intrapreso negoziati di pace indiretti con la mediazione della Turchia (giugno 2008). La notizia delle numerose rivolte scoppiate nel mondo arabo innescava nel 2011 manifestazioni di protesta contro il regime del presidente Bashar al-Assad, che dalla città meridionale di Dar‘ā si propagavano a tutto il Paese. Nonostante la brutale repressione le dimostrazioni proseguivano ininterrottamente; il presidente Assad cercava di fare alcune concessioni, come la costituzione di un nuovo esecutivo e il ritiro dello stato di emergenza in vigore da 48 anni, ma passava di nuovo alla repressione, che causava migliaia di vittime. In novembre la Lega Araba approvava una serie di sanzioni contro la Siria, soprattutto di carattere economico. Nel marzo del 2012 Bashar al-Assad accettava un piano di pace proposto da Kofi Annan, inviato dall'ONU e Lega Araba e l'invio di osservatori per verificare la difficile situazione. In giugno la missione delle Nazioni Unite si ritirava a causa dell'aumento delle ostilità, soprattutto dopo le violente repressioni dell'esercito fedele al regime. Dopo mesi di scontri tra i ribelli e le truppe fedeli al regime la Siria piombava in un clima da guerra civile, con drammatiche consueguenze per la popolazione civile. Nell'agosto del 2013 un presunto bombardamento con armi chimiche da parte del regime, scatenava la reazione della comunità intrenazionale, e la reazione dell'ONU che votava una risoluzione per la distruzione degli arsenali chimici siriani. Nel 2014 gli scontri tra governativi e ribelli continuavano, coinvolgendo anche il nord dell'Iraq, dove si formava la coalizione integralista IS (Stato Islamico), per la formazione di un grande califfato. Nello stesso anno al-Assad giurava nuovamente come presidente, mentre ad agosto si insediava un nuovo governo. Nel nord del Paese affluivano decine di giovani europei musulmani per arruolarsi nelle file dell'IS. La situazione preoccupava molto anche alla luce delle barbare esecuzioni di ostaggi occidentali documentate da macabri video. Nel 2015 gli schieramenti politico-militari erano molteplici: l'esercito filogovernativo, l'esercito dei ribelli, aiutato da Arabia Saudita e Qatar, le forse dell'IS, capeggiate dal califfo Abu Bakr al-Baghdadi, le forze curde e la coalizione internazionale. In questo contesto nell'ottobre del 2015 la Russia interveniva nella guerra per combattere l'IS e si schierava nella coalizione internazionale, guidata dagli Stati Uniti. In novembre, in seguito all'attentato di Parigi, l'aeronautica militare francese intensificava i bombardamenti, soprattutto su Raqqa, roccaforte dell'IS in Siria. CULTURA: GENERALITÀ La Siria si configura, all'interno del panorama mediorientale, come uno Stato sviluppato e moderno, dove tuttavia la tradizione e il patrimonio artistico e architettonico sono preservati e integrati nella dimensione contemporanea. Abitato o conquistato nel corso dei secoli da Fenici, civiltà mesopotamiche, romani, arabi, mongoli e ottomani, il Paese conserva oggi importanti tracce di un passato travagliato ma ricco. I gioielli più preziosi sono stati inseriti dall'UNESCO tra i patrimoni dell'umanità: la città vecchia di Damasco (1979); la città vecchia di Bostra (1980); Palmira (1980); la città vecchia di Aleppo (1986); Crac des Chevaliers e Qal'at Ṣalāḥ Ad-Dīn (2006). Moschee, suk, palazzi, castelli e rovine costituiscono lo sfondo sul quale si dipana la vita quotidiana dei siriani. Non vanno dimenticati i musei, sede per eccellenza della tradizione, e le istituzioni culturali più importanti della Siria; tra i primi, il National Museum di Damasco; fra le altre, il centro Dar Al-Assad for Arts & Culture, l'Arabic Language Academy e l'High Institute of Music, entrambi nella capitale. Anche se una stretta interpretazione della religione vincola ancora in maniera forte alcuni costumi (molte donne osservano l'obbligo del velo e in alcuni locali pubblici non sono ammesse), non poche sono le tendenze di chiara derivazione occidentale divenute ormai comuni: dall'abbigliamento, alla musica , all'architettura urbana che per design e tecnologia si inserisce pienamente nell'era contemporanea. Occasioni privilegiate di unione tra passato e presente sono i festival e le celebrazioni nazionali. Tra i primi si ricordano il Silk Road Festival, dedicato all'artigianato, all'arte, al teatro e alla musica. Tra le feste sono da citare quelle religiose, della prescrizione islamica, e, tra le civili, il Revolution Day (8 marzo) e il National Day (17 aprile). CULTURA: TRADIZIONI Costumi e tradizioni si ricollegano ovunque in Siria all'islamismo, ortodosso o meno, giacché numerose sono le sette eretiche. Ne sono tipico esempio i drusi , gente di indole fiera e bellicosa che vive in casette cubiche arrampicate sulle montagne. I drusi o muwaḥḥidūn (esattamente significa monoteisti), come essi preferiscono chiamarsi, sono gelosissimi delle loro usanze. Sono monogami e conservano nel matrimonio un rito rigido. La futura sposa viene presentata al fidanzato dalla madre di lei e la fanciulla regala al giovane una daga siriaca (ḥanǧar) avvolta in una sciarpa di lana (kuffiye). La spada è il simbolo della protezione che il marito deve alla sposa, la sciarpa quello della dedizione che la moglie offre allo sposo. Altro ceppo siriano di origine musulmana, altrettanto eretico di quello dei drusi, è il ceppo nusayrīya o nusayrī detto anche degli alawiti. I nusayrīya vivono in case cubiche sulle montagne, come i drusi, e praticano riti tradizionali di modellazione del corpo di antichissima origine. Costumi antichi si conservano presso i nomadi del deserto, le tribù dei beduini, gente fiera che coltiva l'amicizia come cosa sacra. Il matrimonio, come in altre realtà del mondo musulmano, avviene ancora sulla base di accordi tra famiglie a cui, formalmente, le figlie posso opporsi, ma che nella realtà sono costrette ad accettare". Le beduine godono peraltro di una certa libertà; non portano il velo e possono incontrarsi con giovani di altre famiglie senza difficoltà. L'arredamento della tenda dei beduini è tanto più ricco quanto più alto è il ceto di appartenenza: tappeti, cuscini, vassoi di cuoio e di rame. L'abbigliamento tradizionale dell'uomo non si differenzia molto da quello femminile: lunga tunica e, sulla testa, un pezzo di stoffa rettangolare trattenuto da un cordone di seta intorno alla fronte. Le donne usano l'izar, grande scialle a colori vivaci, bianco per le più povere. Questi costumi ancora oggi sono assai diffusi nonostante il dilagare, nelle città, della moda occidentale. Il suq (mercato) è la grande mostra dell'artigianato nazionale: stoviglie in terracotta, stoffe, tappeti, scimitarre, pugnali, fucili e rivoltelle con manici incrostati d'oro e d'argento e merci di qualsiasi genere, dagli alimentari ai mobili. Un cenno infine alla cucina siriana che si basa essenzialmente sul montone e sul riso, cucinati in moltissimi modi. Il piatto più famoso è il magribi, variante del cuscus marocchino. CULTURA: LETTERATURA La letteratura siriaca si sviluppò parallelamente al cristianesimo e dal sec. III al XIII fu una delle più ricche tra le cristiano-orientali. Inizia con la traduzione della Bibbia e si afferma con l'opera di Afraate (sec. IV) e di Efrem Siro (ca. 306-373). Nuovo impulso si ebbe nei sec. V e VI come conseguenza dei contrasti religiosi tra nestoriani, monofisiti e ortodossi. Tra i primi si mise in luce Bābay il Grande (n. 540); tra i monofisiti si distinsero Jacopo di Sarūgh (451-521) e Giovanni da Efeso (506-585). Il mondo culturale siriaco andava nel frattempo arricchendosi di nuove traduzioni che diffusero la cultura greca. Con l'invasione araba (636) la lingua siriaca andò declinando fino a restare circoscritta ad alcuni gruppi nestoriani e alla liturgia cristiana. Con Abdhiso, metropolita di Nisibi (sec. XIV), la letteratura siriaca concluse il suo ciclo; passarono quasi cinque secoli prima che si affermasse la letteratura di lingua araba che aveva subito prima un lungoperiodo di “corruzione”, poi di purificazione con il movimento che ebbe il suo centro in Aleppo e il suo maggior rappresentante nel vescovo Germanus Farḥāt (m. 1732). Fu il contatto con gli egiziani, nella breve parentesi del loro dominio che tra il 1832 e il 1840 si sostituì a quello ottomano, a determinare un fermento culturale, subito interrotto dal ritorno ottomano. Questo fu causa della fuga in Egitto di molti intellettuali, non solo siriani, tanto da farlo diventare il Paese guida della nuova letteratura araba, il simbolo stesso dell'idea dell'affermazione dell'arabismo. Il siriano Šakib Arslān (1869-1946), giornalista, uomo d'azione, poeta e narratore, saggista e traduttore, ne fu il massimo propugnatore e a lui fece eco Nizār Qabbanī (1923-1998), uno dei massimi poeti arabi contemporanei, che pur professando la sua fede nel concetto dell'arte per l'arte si è ispirato nei suoi versi alla realtà sociale del Paese, mentre svincolato dalla realtà contingente e aderente ai temi eterni dell'uomo, è il canto del più raffinato poeta arabo del contemporaneo, Adonis, pseudonimo del poeta ʽAlī Aḥmad Saʽīd Isbir (n. 1930). Ma anche in Siria, come in altri Paesi arabi, la narrativa ha assunto con il passare del tempo un ruolo sempre più importante nella produzione letteraria contemporanea. Pionieri del racconto breve sono ʽAbd as-Salām al-ʽUǧailī (1918-2006) e Zakariyyā Tāmir (n. 1931), che hanno contribuito a far conoscere la narrativa siriana in Occidente. Autore soprattutto di romanzi è, invece, Ḥanna Mina che si può considerare uno dei massimi scrittori arabi contemporanei. I suoi romanzi ash-Shirā wa al-ʽāṣifa (La vela e la tempesta) e al-Yāṭir (L'ancora), per lo più ambientati nella Siria costiera, gli hanno fatto meritare l'appellativo di “Conrad della letteratura araba”. Tra le scrittrici va ricordata Colette Khūrī (n. 1937) che fece parlare di sé negli anni Sessanta per un romanzo vagamente femminista. La letterata siriana più letta e più affermata non solo in Siria ma in tutto il mondo arabo è senza dubbio Ghāda as-Sammāʽn (n. 1938), i cui scritti descrivono una certa borghesia araba farcita di valori vacui e falsi, contestati con violenza dalla scrittrice. I suoi romanzi Kawābīs Beirūt (Incubi di Beirut), Beirūt 75, hanno anche mostrato per la prima volta la ferocia della guerra civile libanese con uno stile tanto particolare da rasentare la provocazione. Ma non si può parlare di letteratura siriana senza citare uno dei maggiori drammaturghi di tutto il mondo arabo, Saʽd Allāh Wannūs (1941-1997), cui si deve la teorizzazione di un teatro fondato sulla realtà storico-politica. Punto focale delle sue opere è la denuncia di ogni totalitarismo, male di cui hanno sofferto e soffrono molti Paesi arabi. Tra le sue opere più significative ricordiamo: Ḥaflat samar aǧl 5 ḥuzairān (Serata di gala per il 5 giugno), sulla guerra del 1967 contro Israele, seguito da al-Malik huwa al-malik (Il re è il re) e al-Ightiṣāb (Lo stupro), sulla questione palestinese. Tra gli altri autori di rilievo si segnalano Rafik Schami (n. 1946), nato a Damasco e costretto all'esilio nel 1971, che scrive in tedesco. Il suo romanzo più noto è Il lato oscuro dell’amore (2004); anche Haidar Haidar (n. 1936), è uno degli scrittori del Novecento più letti. Nelle sue opere ha spesso descritto il mondo arabo evidenziandone i lati più controversi in termini di libertà e democrazia. CULTURA: ARCHEOLOGIA E ARTE La Siria antica costituì il punto d'incontro di tutti i processi storico-artistici della vasta regione compresa tra il Nilo e l'Eufrate. Le sue manifestazioni artistiche più antiche, rappresentate dalle costruzioni di Ugarit e dai disegni rupestri di Demir Kapu, risalgono al V millennio a. C. Al IV millennio appartiene invece la ricca produzione ceramica di Tell Halaf e poi di el-Obeyd, diffusa su un'area vastissima che va dalla Mesopotamia settentrionale al Mediterraneo. Il fiorire della grande civiltà sumerica ebbe grande influenza sulla produzione delle stele siriane di Ǧebelet el-Beyda, cui si affiancano la bellissima produzione presargonica di Mari, che riecheggia influssi occidentali, e una significativa produzione locale, come gli idoletti e le teste a grandi occhi di Tell Brāk, le sculture di Hama e Tell Nebī Mend. La vivace attività politica del II millennio, che vide formarsi il regno di Mitanni e le città autonome di Ugarit, Aleppo, Karkemiš, corrispose al periodo di massima fioritura artistica della Siria antica, in cui gli influssi mesopotamici furono integrati con suggerimenti egizi (pitture di Mari) e micenei, nonché da vigorosi apporti locali (piante dei palazzi di Mari e di Alalakh, templi di Ugarit), che conferirono soprattutto alla statuaria, alla glittica, agli avori, alla toreutica, un aspetto assai vivace e originale. Dopo un periodo di forti influssi orientali dovuti alla conquista assira, iniziò la penetrazione prima dell'ellenismo (che ispirò i grandiosi impianti urbanistici di Dûra Europos, di Antiochia, oggi in Turchia, di Palmira, di Damasco) e poi della cultura greco-romana, attestata dalle colossali architetture di Palmira, Apamea ecc. Altri documenti dell'influenza greca e romana sono dati dai pavimenti in mosaico (da Antiochia, Palmira ecc.), dalla scultura decorativa, dalla statuaria e dalle pitture murali delle tombe. L'arte cristiana trovò in Siria una precoce affermazione e la sua espressione monumentale, già attestata dalle decorazioni dipinte dei santuari di Dûra Europos (sec. III), ebbe straordinario sviluppo soprattutto nell'architettura della Siria settentrionale (Qalb-lōze, el-Bāra), almeno fino al periodo in cui, con la dominazione araba, la Siria divenne il centro dell'Impero islamico e si inserì in un diverso e più vasto complesso culturale. La vicinanza dell'Arabia e i fruttuosi contatti che si stabilirono tra i musulmani invasori e le popolazioni locali, civilizzate da tempi molto antichi, fecero della Siria la culla della potenza degli Omàyyadi. A Damasco fu infatti stabilita la capitale del califfato e nella stessa città fu eretta la prima importante moschea congregazionale, sui resti di un precedente tempio classico e di una chiesa cristiana. A Gerusalemme fu eretta la splendida Cupola della Roccia, che rivela influssi della precedente architettura cristiana, mentre caratteri più tipicamente orientali (iranico-mesopotamici) si riscontrano nei resti dei castelli e palazzi omayyadi del deserto (sia nella Siria moderna sia in Palestina), la cui decorazione (a stucco, a fresco, a mosaico) mostra il confluire delle due correnti ellenistico-bizantina e iranico-mesopotamica, dalle quali nacque appunto la più antica arte islamica siriana. Nei sec. XII-XIII sorsero, per opera degli ordini crociati, vari castelli-fortezze (di el-Mudin presso Laodicea, Bianco e Rosso presso Tartūs, Crac des Chevaliers a Qal'at el-Ḥoṣn), spesso costruiti su precedenti fortezze arabe. Il più ricco patrimonio islamico della Siria risale ai periodi dei Mamelucchi e dei Selgiuchidi, quando sorsero in gran numero madrase, bagni, moschee , palazzi in uno stile islamico composito che vide il trionfo dell'arte decorativa (ceramica, toreutica, arte vetraria, con magnifici prodotti di vetro dorati e smaltati, provenienti dalle officine di Aleppo, Damasco e Antiochia). Di scarsa originalità le manifestazioni dell'epoca ottomana in cui si continuarono, fiaccamente, i modelli architettonici e decorativi tradizionali o si imitarono quelli di Costantinopoli e dell'Anatolia. Nel XX secolo l'arte siriana, per un verso storicamente “ostacolata” dai precetti coranici sull'iconografia, ha raccolto e rielaborato l'ampia tradizione che qui si è sviluppata, e ha saputo coniugarla con le sollecitazioni dell'arte europea, arrivata anche grazie ad artisti del vecchio continente attivi nel Paese. Le opere di artisti quali Maḥmū‘d Jalal (1911-1976) e Luan Kayali (1934-1978) sono dominate dal realismo in cui soggetti principali sono le persone comuni, rappresentate negli ambienti di lavoro. CULTURA: MUSICA La Siria fu una delle fucine del canto liturgico cristiano, che venne sviluppandosi, unitamente alle relative forme testuali, tra il III e il VII sec. Influenzato da elementi di origine ellenica e soprattutto ebraica, ebbe tra le forme principali la madrasha, ode composta di lunghe strofe intonate da un solista con un unico intervento corale; la sogitha, un inno eseguito antifonicamente da due cori; il kala, breve composizione in lingua aramaica sviluppata dai monofisiti in Mesopotamia; la anjana, coro antifonico le cui strofe erano alternate a versetti di salmi. La pratica del canto antifonale e l'inno (che ebbe in Efrem il suo iniziatore) furono i due elementi che più direttamente influirono sul canto cristiano d'Occidente; inoltre il repertorio liturgico siriano ebbe larga parte nell'elaborazione della dottrina dell'oktoekos (il sistema degli otto modi liturgici bizantini). A partire dal VII sec. la Siria risentì in maniera determinante dell'influsso della musica araba, iraniana e turca. CULTURA: CINEMA Risalgono agli anni Dieci del Novecento i primi approcci siriani al cinema attraverso la dominazione turca, ma solo nel 1928, con il film L’accusato innocente, ci furono i primi timidi accenni d'una produzione locale, lasciata sempre all'iniziativa individuale nei decenni successivi, e sempre regolarmente frustrata. Pochissimi titoli, altrettanti fallimenti, nessuna struttura seria a sorreggere gli sforzi tenaci di alcuni pionieri. Sul finire degli anni Cinquanta, su iniziativa del nuovo ministero della Cultura, fu realizzata, con mezzi tecnici adeguati, una bella serie di documentari informativi e illustrativi, mentre cominciavano a espandersi nel Paese i nuclei di appassionati grazie anche all'opera meritoria del critico e saggista Salāh' D'ehny, poi direttore del Centro culturale arabo a Damasco. Con la rivoluzione del 1963 si è giunti alla creazione di un Organismo generale del cinema, che si è trovato di fronte a compiti imponenti e difficili: accrescere il numero di sale anche in campagna, stabilire rapporti dinamici con il settore privato, sviluppare coproduzioni culturalmente efficienti, costruire teatri di posa, modificare profondamente il mercato (importazione e distribuzione). Alcuni risultati si sono visti, come l'ospitalità al regista egiziano esule Tawfiq Salāh per Le vittime (1972) e al regista libanese Borhan Alaouye per Kafr Kassem (1974), entrambi dedicati al dramma palestinese; la nascita di un regista siriano, Nabīl al-Malīh', rivelatosi in uno dei tre episodi di Uomini sotto il sole (1970), nel film Il leopardo (1972) e nel cortometraggio Napalm premiato nel 1974 a Tolone; la rivelazione, in quest'ultima sede, di un cinema giovane con ambizioni artistiche anche col film Al-Yazirly (realizzato dall'iracheno Qays Zubaydi ma prodotto in Siria) e col lungometraggio La vita quotidiana in un villaggio siriano di Umar Amir'alay, in programma alla Mostra di Pesaro del 1976. Una buona accoglienza è stata riservata nel 1983, al “festival del cinema arabo” di Parigi, alla commedia L’incidente del mezzometro (1982) di Samir Dhikra (regista nel 1998 anche di Torab al-ghoraba – Land for a Foreigner) e, al festival di Cannes del 1984, a I sogni della città (1983) di Mohammed Malas. Lo stesso autore è stato poi premiato a Berlino per Ahlam el Madina (1985), e ha diretto, nel 2005, Bab el makam. Un'ulteriore opportunità di promozione e diffusione è stata fornita dalla partecipazione di alcuni registi e documentaristi siriani all'Arab Film Festival (organizzato negli Stati Uniti a partire dal 1997). Il cinema in Siria resta un ambito “non facile”, per le pressioni più o meno latenti delle autorità, ma, tra le personalità emergenti tra la fine del XX secolo e l'inizio del nuovo millennio, si segnalano Nabil Maleh, regista di al- Kompars (1993; The Extras); Abdellatif Abdelhamid, autore di Rassaelle Chafahyia (1993; Oral Messages) e Qamarayn wa zaytouna (2001; Two Moons and an Olive Tree); Usāma Muḥammad (n. 1954), autore di Sunduq al-dunyâ (2002; The Box of Life) e Stars in Broad Daylight (1988), per i quali ha ricevuto riconoscimenti in più di un festival internazionale. BIBLIOGRAFIA P. Hitti, History of Syria, New York, 1951; J. Wellhausen, Das arabische Reich und sein Sturz, Berlino, 1960; J. B. Glubb, Le grandi conquiste arabe, Milano, 1963; A. L. Tibawi, A Modern History of Syria Including Lebanon and Palestina, Londra, 1969; T. Petran, Syria, New York, 1972; P. Seale, The Struggle for Syria, Londra, 1986; N. J. Weinberger, Syrian Intervention in Lebanon: the 19751976 Civil War, Oxford, 1986; A. Bahnassi, R. Boulanger, Siria, Verona, 1991; D. Le Gac, La Syrie du général Assad, Bruxelles, 1991. L’ Isalm non ha mai prodotto un modello politico proprio. Nessuna istituzione politica che fuznioni in modo adeguato ed autonomo, nessuna relazione adeguata a livello giuridico tra Stato e famiglia, Stato e società, Stato e potere economico.(Joseph Ratzinger Marcello Pera,Senza Radici, ed. Mondadori,2004, Capitolo Il relativismo,ilcristianesimo e l’ Occidente di Marcello Pera).).”Si può dire che l’ Occidente è migliore dell’ Isalm e tollerare l’ Isalm, rispettare l’ Isalm, diaologare con l’ Isalm, disinteressarsi dell’ Isalm, oppur eostacolare l’ Isalm, confliggere ocn l’ Islam, secondo la gamma degli atteggimaneti possibili.(op.cit pp 12)La conseguenza è che oggi l’ Occidente è paralizzato due volte. E’ paralizzato perchè non ritiene che ci siamo buone ragioni per dire che esso è migliore dell’ Isalm, è paralizzato perchè ritiene che, se queste ragioni ci forssero, allora dovrebbe scontrarsi con l’ isalm”.(pp13) e a seguire il testo afferma: “ ... affermo i principi della tolleranza, della ocnvivenza, del rispetto, oggi tipici dell’ Occidente, ma sostengo che, se qualcuno rifiuta la reciprocità di questi principi e ci dichiara un’ ostilità o la jihad allora si deve prendere atto che è un nostro avversario. Cosa dire? Il testo è del 2004, le ragioni espresse sono di buon senso, chi attacca verrà attaccato, chi offende i valori di una civiltà e non sa esprimere una chiara volontà di confronto è in balia delle bombe occidentali, se le cerca, le avrà. Parigi 13 novembre 2015 è una data storica che si inserisce in questo difetto dell’ intelligenza umana: quello di non aver compreso che chi uccide verrà ucciso, chi non si pone in un ottica di libertà reciproca passerà sotto il giudizio quello si Universale delle armi, non esistono alternative possibili, dopo Parigi 2015 nulla sarà mai come prima. Non lo sarà perchè i cittadini non vedranno mai più soddisfatti i propri bisongi primari come li chiamava Maslow nella sua piramide, i bisongi di sicuerezza, non lo sarà perchp ospedali, strade e autostrade, porti, città, continenti interi sono stati edificati grazie alle tasse di cittadini onesti, che ora se li vedono usare da altri che pur pagando le tasse, non hanno partecipato alla loro construzione, non hanno combattuto nella prima e seconda Guerra per conquistarsi quelle strade, quei pronto soccorsi, quelle strade e ora le usano come se fossero loro da sempre, spesso pretedendo di chiamarsi europei senza esserlo. La loro vera cultura si potrebbe esprimere sono in uno slancio di umiltà: ringraziando i paesi che li ospitano,rispettando i loro usi e costumi e mai cerando di cambiarli, chiedendo ai loro di illustrare i libri di storia, di capire Max Weber ed Umile Durkheim fino in fondo, e dopo aver letto al Divina Commedia chiedere ai politici italiani di aiutarli a liberare i loro Paesi dall’ egoismo e dalla vergogna istituzionale, dalla violenza e dalla miseria in ogni forma perpetrata dai loro violenti governanti, sporchi disangue e di petrolio, alle loro responsabilità davanti ai crimini che hanno commesso. Studianod la Storia speriamo che un Isalmico vero, se mai la storia lo produrrà, impari il significati vero della pace e diventi esso stesso liberatore dei loro paesi. Il pensiero economico del Medioevo, in Storia delle idee politiche econbomiche sociali, dire tta da L.Firpo, Voll II,Ebraismo Cristianesimo Il Medioevo, ed UTET,1983. Secondo los torico tedesco Otto Brunner per tutto il medioevo l’ economia è stata concepita nel mondo signorile e anche ocntadino come economia domestica, come tecnica della saggia amministrazione della casa. Questa era quindi collocata nella struttura famigliare, comrpensiva di collaboratori e funzionari, certo, ma era il modello della stessa realtà economica. Insieme alle grandi abbazie del medioevo e ai beni ecclesiastici questi elementi erano costitutivi del mercato e dell’ economia del Medioevo. Ma i monaci erano sottoposti all’ etica di Dio, alla sua morale, non mancavano i casi di corruzione anche tra gli abati, ma il tutto poi si sarebbe riversato nelle sitituzioni politiche, che avrebbero anche salvato con eserciti e la messa in campo di forze armate le stesso economie cenobite.Le autorità ecclesisatiche misero ben presto in regole anche i monaci, invitandoli a prendere atto che il peccato e l’ ingordigia erano sempre alla porta, la moderazione quindi doveva necessariamente costituire un modus videndi per tutti i fedeli, nessuno ecluso.Connesso all’ esercizio del mercato poteva insinuarsi il pericolo del peccato di avarizia e cupidigia, con relativo obbligo di non cadere nel rischio dell’ usura. Al problema delal ricchezza dei monastreri, nel duecento, si arrivà a quello di dover fare i conti con la Regola benedettina della povertà, che san Francesco delineò molto chiaramente. In tal modo le cose vennero subito risolte, come poi avvenne in campo sociale nel rinascimento: solo le istituzioni religiose pitevano gestire le ricchezze della chiesa non i monaci da soli, solo lo Stato e le banche, quindi le istituzioni, potevano amministrare la cosa pubblica. Ai singoli non era permesso di gestire la cosa pubblica, questa fu la conquista sociale che delineò i successivi modelli istituizonli, fino in epoca moderna. La povertà è considerata non solo nella sua veste sociale ed economica, ma è collocata nella sua giusta dimensione teologica e morale, che diviene metro di misura con cui valutare ogni fatto economico. L’ economia moderna poi rafforzerà l’ idea dell’ accumulo del capitale per fare fronte al sostentamento dei membri della società che in essa troveranno rifugio istituzionale e salvezza socio-economica. Grazie agli interventi dello Stato tutti potrannno lavorare. Vivere, curarsi, percorrere strade in sicurezza e senza i timore di essere uccisi da sicari sconosciuti e in balia di zone franche anti-istituionaali. Ma come si è evoluta la società isalimca? Se di un pensiero politico fra gli arabi si può parlare, data la ridimentalità della loro vita intellettuale e sociale, si deve iniziare a considerare la natura tribale, beduina, delle loro organizzaizoni sociali. Questo è stato l’ inizio delle loro culture istituzionali, ancora oggi in balia di mercenari senza scrupoli. La società araba poggiava su ordinamento tribali, reti genealogiche reali, individualistiche, ccollegate tra loro da famiglie clan,. Ogni tribù era a sè, governata da leggi mai scritte le leggi del deserto e della sabbia, ( op. citata pp.867) e chi cercava di porre fine a questo non odine veniva soppresso. I nomi dei re in questi territori ebbero sempre un suono poco gradito fino alla vigilia della nascita dell’ isalm. Anche in due piccoli centri urbani quali Higiaz e Medina erano prsenti questi contrasti, con al centro tribu rivali, come al solito, che vivevano di logoranti lotte, come al solito, come ora nel 2015. Lotte sempre lotte, la storia deiu paesi arabi è segnata da lotte, sempmre lotte. Ma come mai? Alla Mecca dove era presente una unica tribù i Quraish, da cui doveva nascere il profeta Maometto, le cose stavano già in questo modo. Da una parte quindi una piccola polis oligarchica di capitalisti in lotta con le tribù del deserto dall’ altra parte Medina: in queste forme conflittuali nasceva l’ Isalm. Un popolo , secondo gli storici molto religioso, desideroso di conscere un dio, vicino sentimentalmente alla necessità di averene uno ben definito. La umma, o comunità dei credenti si stava formando nel verbo di Maometto , passò da modesto gruppo umano a grande società politica e sociale dopo lì Egira del 622 d.C quando a Medina Maometto non fu solo capo religioso ma capo di Stato teocratico, civile e militare ovviamente. La sua prima costituzione si chiamò Costituzione medinese dell’ anno I, che regolava i rapporti tra ebrei e mussulmani, i primi componenti di tai gruppi sociali, poi divenuti solo mussulmani. Ma prima erano ebrei e mussulmani. Ma quale pensiero politico contiene il Corano? La politica , distinta dalla religione non esiste pe ril fondatore dell’ Islam, lo stato mussulmano è la comunità dei credenti, partecipi di un messaggio divino a lui rivelato. Secondo passo: netta separazione tra credenti e non credenti.I credenti potevano far uso delle armi, diritto e dovere dei credenti farne uso, quindi non si tratta di religione ovviamente ma di qualche cosa di non ben chiaro, visto che per diffondere l’ isalm era possibile il ricorso alla gihàd per piegare l’ infedele. Il capo politico militare della umma medinese era solo lui Maometto. La terra si dividerà tra: territorio dell’ isalm-dar al-Islam e territorio di guerra dar al-harb. Maometto si spense nel 632 senza lasciare alcuna disposizione per la sua successione. Dallo smarrimento uscì per l’ intervento di Omar il riconoscimento di Abu Bekr suo fido e Khalifat rasùl Allàh successore del profeta,califfo. Dopo l’ assasioni di un nuovo successore Uthmàn nel 656 si aprì la via al califfato ad Alì, cugino e genero del profeta, e si apriva con lui l’ era delle discordie e dei conflitti, ovviamente. Sempre conflitti, sempre morti, sempre violenze. Contro Alì insorse Mu àwiya che diede inizio alla dinastia dei califfati Omàyydi, 660-750, che a loro volta sempre lottare contro chi si opponeva ai califfati : da un lato gli Sciiti seguaci di Alì e dei suoi discendenti che si ritenevano diretti discendenti, quindi di sangue, del profeta, dall’ altra i Kharigiti una setta di puritani estremisti che ripudiavano gli altri e le loro discendenze proclamavano i loro presunti legittimisti in quanto il califfato poteva, a loro dire, essere accessibile a qualsiasi mussulmano. Degno. Il frutto di queste opposizioni fu colto da altri che vennero dopo gli Abbasidi, anche loro imparentati col profeta, e con gli Alidi. E cosi la storia triste di questo popolo ebbe inizio , g fino al mantenimento. per cinque secoli dall’ Iraq. della direzione ortodossa dell’ Islam per scomparire solo nel 1258 sotto l’ attacco dei Mongoli. Appartenere alla stirpe di sangue o no: quesot lo scontro. Appartenere ai legittimi discendenti della stirpe meccana dei Quraish la tribu del profeta o essere ugualitari Kharigiti. I califfo in sonstanza, anche se vi furono tentativi per legittimare la sua elezione, non veniva eletto, ma acclamato, riconbosciuto tale da un gruppo, una sorta di finzione giuridica sempre presente. Peccato che nè Al Farabi nè Avicenna nè Averroè riuscirono a far guadagnare la parola pace e istituzioni fondate sull’ uguaglianza sociale in quei martoriati paesi. Storia dela Siria contemporanea di Mirella Galetti popoli, istituzioni cultura, tascabili Bompiani,2006. La storia della Siria è costellata da eventi drammatici, poco costruttivi, determinati a far tronfare l’ egoismo e mai la democrazia. Ho letto cinque libri sulla storia di questo paes, non ho visto la storia di un bel nulla. Ho letto una serie infinita di eventi bellici, stermini, rimpasti governtivi ai quali seguiva quasi sempre l’emanazione di una nuova costituzione,e banalità simili. Ad ogni cambio pagina una novità, poi una delusione di nuovo, una novità ad esempio l’ alleanza con l’ Egitto, seguita con una delusione. Impossibile geerare in quei paesi democrazia, giustizia, legalità. Impossibile. IL mandato francese, l’ indipendenza del 1946-2005 che nasce come repubblica parlamentare dei facto ma il pitere era nelle mani dieprprietri terrieri e dei militari come al solito. Familiarismi nepotismo inefficenze governative e via di questo passo, tutto cosi. Conflitto: arabo israeliano e la sconfitta araba che segnò pesantemente nel 1948 la regione segnò l’ inizio della fine dei vecchi regimi in siria e egitto, colpi di stato non si contano dal 1949 al 1970 destabilizzazrono il paese di continuo, si socntravano elementi nazionalisti con altri filo ccidentali, i Ba’th termine che significa resurrezione si considerava partito arabo universale e si era sviluppato soprattutto in Iraq portato al ptere sempre dai miltari il 23 febbraio 1966 tredicesimo colpo di stato in 17 anni.... condanne a morte, fino a Bashar al- Asad 2000-2005 che Sali al potere dopo aver sudiato a Damasco oftalmologia ed essersi spoecializzato in Gran Bretagna-dal 1992- al 1994, poi ebbe anche lui una bella formazione militare accelerata. Primmo presidente siriano a compiere un viaggio nelle aree curde nel 2002... collabora con Gran Bretagna, rilascia prigionieri, quindi i curdi chiedono i loro diritti come ad esempio la restituzione della carte di identità ritirate a 200.00 curdi, le libertà d espresssione ma niente. I curdi nel cnotesto siriano diventeranno polo di opposizione, dato che le loro libertà civili e politche non sono mai state accettate. Il Congresso USA dell 11 novembre 2003 adottò una risoluzione che stabili sanzioni alla siria accusata di armare i terrositi S apre qui una nuova guerra: quella per la quale non faccio nulla io direttamente mando a sparare in casa tua ribelli armati da me, pagati da tutti, contro chi voglio. Pare che la siria non abbia pagato alcuni debitin con l’ IRAQ pari a 200 milioni di dollari, i conti siriani vengono bloccati, deludenti anche accordi con unione europea. Fino agli eventi ben noti, che tutti conosciamo come un ginepraio, una confuzione confusante di cose inspiegabili, sempre più offuscate.