lunedì 30 novembre 2015

Conferenza di Parigi sul Clima, una riconferma industria uguale tumori

L'Italia è il Paese dell'Unione europea che segna il record del numero di morti prematuri rispetto alla normale aspettativa di vita per l'inquinamento dell'aria. La stima arriva dal rapporto dell'Agenzia europea dell'ambiente (Aea): il Belpease nel 2012 ha registrato 84.400 decessi di questo tipo, su un totale di 491mila a livello Ue. Tre i 'killer' sotto accusa per questo triste primato. Le micro polveri sottili (Pm2.5), il biossido di azoto (NO2) e l'ozono, quello nei bassi strati dell'atmosfera (O3), a cui lo studio attribuisce rispettivamente 59.500, 21.600 e 3.300 morti premature in Italia. Il bilancio più grave se lo aggiudicano le micropolveri sottili, che provocano 403mila vittime nell'Ue a 28 e 432mila nel complesso dei 40 Paesi europei considerati dallo studio. L'impatto stimato dell'esposizione al biossido di azoto e all'ozono invece è di circa 72mila e 16mila vittime precoci nei 28 Paesi Ue e di 75mila e 17mila per 40 Paesi europei. L'area più colpita in Italia dal problema delle micro polveri si conferma quella della Pianura Padana, con Brescia, Monza, Milano, ma anche Torino, che oltrepassano il limite fissato a livello Ue di una concentrazione media annua di 25 microgrammi per metro cubo d'aria, sfiorata invece da Venezia. Considerando poi la soglia ben più bassa raccomandata dall'Oms di 10 microgrammi per metro cubo, il quadro italiano peggiora sensibilmente, a partire da altre grandi città come Roma, Firenze, Napoli, Bologna, arrivando fino a Cagliari. RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

giovedì 12 novembre 2015

TTIP ATTENTATO ALLA SALUTE , disoccupazione e AZIENDE ITALIANE VENDUTE


TTIP E AZIENDE ITALIANE VENDUTE ALL' ETSERO, ECCO ILL TTIP.
TTIP: duro confronto tra Usa e Ue all’Assemblea mondiale delle Indicazioni Geografiche. Il governo italiano minaccia di non firmare il trattato Beniamino Bonardi 5 novembre 2015 Europa e USA non si comprendono per quanto riguarda le Indicazioni Geografiche A Miami, in Florida, si è svolto l’undicesimo round di negoziati sul Trattato di libero scambio tra Ue e Usa (TTIP), due settimane dopo che gli Stati Uniti hanno concluso gli accordi con altri 11 paesi dell’area del Pacifico su un altro grande trattato commerciale, il TPP (Trans-Pacific Partnership). Il testo del TPP dovrebbe essere reso pubblico in novembre e poi il Congresso Usa avrà tre mesi di tempo per approvarlo, senza emendamenti, o respingerlo. Un voto ancora incognito è quello della probabile candidata democratica alla presidenza degli Stati Uniti, Hilary Clinton, che durante i negoziati aveva evitato di pronunciarsi in merito e che quando era Segretario di Stato, dal 2009 al 2013, aveva descritto l’accordo come potenzialmente benefico per tutti i contraenti: Usa, Canada, Australia, Brunei, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam. «A oggi, non sono favorevole. Credo che ci siano ancora molte domande senza risposta», ha dichiarato Hilary Clinton, che si è mostrata scettica sul fatto che l’accordo possa «creare posti di lavoro negli Usa, aumentare i salari e migliorare la sicurezza nazionale». TTIP L’Ue subisce una forte pressione dell’opinione pubblica contraria a questo accordo Con la chiusura dei negoziati sul Trattato transpacifico, il governo Usa può concentrarsi sui negoziati relativi al Trattato con l’Unione europea, proprio mentre l’Ue subisce una forte pressione dell’opinione pubblica contraria a questo accordo, che si è concretizzata in più di 3,2 milioni di firme raccolte in calce alla petizione che chiede l’interruzione dei negoziati, dalla campagna europea Stop TTIP e con una manifestazione che il 10 ottobre ha visto scendere in piazza 250.000 persone a Berlino. In questo contesto, all’Expo di Milano si è svolto un convegno in occasione della prima “Assemblea mondiale delle Indicazioni Geografiche”, che ha visto un raro confronto pubblico ad alto livello tra Ue e Usa, che a tratti è stato molto “franco”, come si direbbe in linguaggio diplomatico. L’incontro in conclusione ha visto il vice-ministro allo Sviluppo economico con delega al Commercio estero, Carlo Calenda, minacciare di non firmare il TTIP e di scatenare una “competizione violentissima” e un “conflitto sui mercati dei paesi terzi”, se gli Usa dovessero mantenere una posizione di chiusura sull’Italian sounding, cioè sull’utilizzo di immagini e nomi evocativi del nostro paese ma riguardanti prodotti made in Usa. Già un anno fa Calenda aveva avvertito che le Indicazioni Geografiche facevano parte di quelle materie “che hanno un alto grado di rilevanza e sensibilità politica”, per le quali “un contesto politico ostile potrebbe rivelarsi rovinoso, se non controbilanciato da un forte esercizio di leadership politica negli Stati Uniti e in Europa. Più il risultato si allontana più il negoziato, rimanendo in balia dei suoi oppositori, rischia di spostare alcuni di questi dossier verso la categoria delle materie non negoziabili”. Continua a leggere a pagina 1 2 Beniamino Bonardi IL FATTO ALIMENTARE


 E SE PROVASSIMO A LEGGERE QUESTE VENDITE CONTINUE DI AZIENDE ITALIANE COLLEGANDOLE AL FAMIGERATO TTIP????

 La Barilla è stata venduta agli americani...
-L'Alitalia è stata venduta ai francesi.
-La Plasmon è stata venduta agli americani.
-La Parmalat, di quel buon signore di Tanzi, è stata venduta ai francesi della Lactalis-
-L'Algida è stata venduta ad una società anglo-olandese
-L'Edison, antica società dell'energia, venduta ad una società francese, l'EDF
-Gucci è nelle mani della holding francese Kering
-BNL è controllata dal gruppo francese Bnp Paribas
-ENEL cede buona parte delle quote ai russi (il 49%)
-Il marchio AR, azienda conserviera quotata in borsa, di Antonino Russo, è passata ai giapponesi della Mitsubishi.
-Lo stabilimento AVIO AEREO è passato alla Generale Eletric...
-I cioccolatini Pernigotti dei fratelli Averna venduti ai turchi della famiglia Toksoz
-L’azienda Casanova, La Ripintura, nel Chianti, è stata recentemente acquisita da un imprenditore di Hong Kong
-I baci perugina appartengono dal 1988 alla svizzera Nestlè
-I gelati dell’antica gelateria del corso sempre alla Nestlè
-Buitoni: L'azienda fondata nel 1927 a Sansepolcro dall'omonima famiglia è passata sotto le insegne di Nestlè nel 1988.
-Gancia: le note bollicine sono in mano all’oligarca russo Rustam Tariko (proprietario tra l’altro della vodka Russki Standard) dal 2011.
-Carapelli è nella galassia del gruppo spagnolo Sos dal 2006, cosi come Sasso e Bertolli.
-Star. Il 75% della società fondata dalla famiglia Fossati (oggi azionisti di Telecom Italia) nel primo dopoguerra, è in mano alla spagnola Galina Blanca (entrata nel 2006 e poi salita del capitale del gruppo).
-Salumi Fiorucci: sono in mano agli spagnoli di Campofrio Food Holding dal 2011.
-San Pellegrino è stata acquisita dagli svizzeri della Nestlè dal 1998.
-Peroni è stata comperata dalla sudafricana Sabmiller nel 2003.
-Orzo Bimbo acquisita da Nutrition&Santè di Novartis nel 2008.
-La griffe del cachemire “Loro Piana”, fiore all’occhiello del made in Italy, è stata ceduta per l’80% alla holding francese Lvmh che già include simboli assoluti come Bulgari, Fendi e Pucci.
-Chianti classico (per la prima volta un imprenditore cinese ha acquistato una azienda agricola del Gallo nero)
-Riso Scotti (il 25% è stato acquisito dalla società alla multinazionale spagnola Ebro Foods)
-Eskigel (produce gelati in vaschetta per la grande distribuzione (Panorama, Pam, Carrefour, Auchan, Conad, Coop) (ceduta agli inglesi con azioni in pegno ad un pool di banche).
-Fiorucci–Salumi (acquisita dalla spagnola Campofrio Food Holding S.L.)
-Eridania Italia SpA (la società dello zucchero ha ceduto il 49% al gruppo francese Cristalalco Sas)
-Boschetti alimentare (cessione alla francese Financière Lubersac che detiene il 95%)
-Ferrari Giovanni Industria Casearia SpA (ceduto il 27% alla francese Bongrain Europe Sas) 2009
-Delverde Industrie Alimentari SPA (la società della pasta è divenuta di proprietà della spagnola Molinos Delplata Sl che fa parte del gruppo argentino Molinos Rio de la Plata) 2008
-Bertolli (venduta a Unilever, poi acquisita dal gruppo spagnolo SOS)
-Rigamonti salumificio SPA (divenuta di proprietà dei brasiliani attraverso la società olandese Hitaholb International)
-Orzo Bimbo (acquisita da Nutrition&Santè S.A. del gruppo Novartis)
-Italpizza (ceduta all’inglese Bakkavor acquisitions limited)
-Galbani (acquisita dalla francese Lactalis)
-Sasso (acquisita dal gruppo spagnolo SOS)
-Fattorie Scaldasole (venduta a Heinz, poi acquisita dalla francese Andros)
-Invernizzi (acquisita dalla francese Lactalis, dopo che nel 1985 era passata alla Kraft) 1998
-Locatelli (venduta a Nestlè, poi acquisita dalla francese Lactalis)
-San Pellegrino (acquisita dalla svizzera Nestlè) 1995
-Stock (venduta alla tedesca Eckes A.G., poi acquisita dagli americani della Oaktree Capital Management) 1993
-La Safilo (Società azionaria fabbrica italiana lavorazione occhiali), fondata nel 1878, che oggi produce occhiali per Armani, Valentino, Yves Saint Laurent, Hugo Boss, Dior e Marc Jacobs, è diventata di proprietà del gruppo olandese Hal Holding.
-Nel settore della telefonia, a Milano nel 1999 era nata Fastweb, una joint venture tra e.Biscom e la comunale Aem che oggi fa parte del gruppo svizzero Swisscom.
-Nel 2000 Omnitel è passata di proprietà del Gruppo Vodafone
-Nel 2005 Enel ha ceduto la quota di maggioranza di Wind Telecomunicazioni al magnate egiziano Sawiris, il quale nel 2010 l'ha passata ai russi di VimpelCom.
-Nel campo dell'elettrotecnica e dell'elettromeccanica nomi storici come Ercole Marelli, Fiat Ferroviaria, Parizzi, Sasib Ferroviaria e, recentemente, Passoni & Villa sono stati acquistati dal gruppo industriale francese Alstom, presente in Italia dal 1998.
-Nel 2005 le acciaierie Lucchini spa sono passate ai russi di Severstal, mentre rimane proprietà della omonima famiglia italiana, la Lucchini rs, che ha delle controllate anche all'estero.
-Fiat Avio, fondata nel 1908 e ancora oggi uno dei maggiori player della propulsione aerospaziale, è attualmente di proprietà del socio unico Bcv Investments sca, una società di diritto lussemburghese partecipata all'85% dalla inglese Cinven Limited.
-Benelli, la storica casa motociclistica di Pesaro, di proprietà del gruppo Merloni, nel 2005 è passata nelle mani del gruppo cinese QianJiang per una cifra di circa 6 milioni di euro, più il trasferimento dei 50 milioni di euro di debito annualmente accumulato.
-Nel 2003 la Sps Italiana Pack Systems è stata ceduta dal Gruppo Cir alla multinazionale americana dell'imballaggio Pfm Spa.
-In una transazione di meno di un mese fa Loquendo, azienda leader nel mercato delle tecnologie di riconoscimento vocale, che aveva all'attivo più di 25 anni di ricerca svolta nei laboratori di Telecom Italia Lab e un vasto portafoglio di brevetti, è stata venduta da Telecom alla multinazionale statunitense Nuance, per 53 milioni di euro.
fonte www.mezzostampa.it



OLI MINERALI pericolosi nei cibi: industria alimentare uguale VELENO NEL PIATTO

Oli minerali negli alimenti: le confezioni in cartone utilizzate per i cibi possono essere contaminate da idrocarburi pericolosi per la salute Luca Foltran 6 novembre 2015 Alimenti di largo consumo quali riso, couscous, lenticchie, fiocchi di mais, cacao in polvere o paste, confezionati in cartone possono essere contaminati da oli minerali, idrocarburi pericolosi per la salute. Questo l’allarme lanciato da Foodwatch.org, organizzazione no profit indipendente fondata nel 2002 in Germania dall’ex direttore di Greenpeace Thilo Bode, che analizza le pratiche dell’industria alimentare a tutela dei consumatori. I dati raccolti rappresentano il più vasto studio europeo sull’argomento (hanno interessato 120 prodotti) e dimostrano che quasi la metà (43%) del cibo testato in tre Paesi Europei (Francia, Germania e Paesi Bassi) sono contaminati da oli minerali aromatici (MOAH), sostanze sospettate di essere cancerogene, mutagene e perturbatori endocrini (che alterano il corredo genetico). A innalzare la soglia di preoccupazione, un’ulteriore rivelazione di questi studi che evidenzia come altri tipi di idrocarburi saturi (MOSH), pericolosi perché si accumulano negli organi, siano stati invece riscontrati nella stragrande maggioranze dei prodotti (83%). Le autorità europee avevano già posto l’attenzione su queste classi di sostanze nel 2012 quando l’EFSA (l’Autorità europea per la sicurezza alimentare) si pronunciò ufficialmente riconoscendole come un reale motivo di preoccupazione per alcuni consumatori come i bambini e gli adolescenti. Secondo il rapporto Efsa il problema MOH (Mineral Oil Hydrocarbons) sarebbe dovuto essere affrontato già nel 2012 con misure specifiche (leggi articolo). carta riciclata Le confezione in fibre riciclate presentano rischi sanitari Tornando allo studio di Foodwatch, la maglia nera risulta essere della Francia, con sei prodotti su dieci contenenti oli minerali della categoria più pericolosa (MOAH): tra questi vi sono vari prodotti destinati anche a bambini come la pasta, il cacao, le lenticchie, corn flakes, couscous e riso. Il cibo può essere contaminato in tutte le fasi che precedono l’immissione sul mercato: catena di produzione, fase di stoccaggio, il trasporto, ma lo studio sembrerebbe dimostrare che la maggior parte degli oli minerali migra dall’imballaggio a base di carta e cartone (spesso carta riciclata). Il riciclaggio della carta è, ovviamente, importante per l’ambiente, ma le confezione in fibre riciclate presentano rischi sanitari reali se gli alimenti non sono adeguatamente isolati. In commercio esistono già soluzioni che permettono di creare una barriera adeguata tra l’imballaggio in cartone e l’alimento, e che impedirebbero il passaggio di oli minerali dalla confezione al cibo. Foodwatch ha anche lanciato una petizione sull’argomento in Francia, Germania e Paesi Bassi che consente a tutti di rivolgersi direttamente al Commissario europeo per la salute e la sicurezza alimentare, Vytenis Andriukaitis. La richiesta riguarda un intervento urgente da parte delle autorità che, pur consce dell’esistenza del problema, non si sono mosse per arginarlo. © Riproduzione riservata sostieniProva2 IL FATTO ALIMENTARE

MERENDINE PER CELIACI ALLA MUFFA

Ritirate merendine per celiaci “Cuoricini di Sicilia” per la presenza di muffe. Il richiamo riguarda un solo lotto Redazione Il Fatto Alimentare 6 novembre 2015 Richiami e ritiri Lascia un commento 874 Visto merendine per celiaci Merendine per celiaci: ritirato un lotto Il 22 ottobre 2015 l’azienda Nove Alpi Srl ha disposto il ritiro da tutti i punti vendita di “Cuoricini di Sicilia” merendine con farcitura agli agrumi senza glutine né lattosio della marca Aglutèn. A seguito della segnalazione di un consumatore l’azienda ha effettuato approfonditi controlli interni che hanno evidenziato la presenza di muffe. Le confezioni che potrebbero presentare il problema non dovrebbero essere più di 24 per un totale di un centinaio di merendine. L’azienda ha potuto restringere il campo grazie all’impiego, oltre al codice di lotto, anche al sub-lotto che individua con precisione l’orario di produzione. Si stima infatti che il problema sia da imputare a un’inefficienza a livello si confezionamento che non è durato per più di due minuti. Le merendine richiamate sono i “Cuoricini di Sicilia”, lotto 5238 28423 con scadenza il 31/05/2016. Tutti i consumatori che avessero delle confezioni di questo prodotto in casa sono invitati a riportarle presso il punto vendita dove l’hanno acquistato, che provvederà al rimborso. © Riproduzione riservata IL FATTO ALIMENTARE

pesce attenzione di buono in giro non c'e n' è più....da anni

Negli Stati Uniti molto spesso, quasi in un caso su due, il salmone venduto come oceanico, selvatico, non lo è affatto, soprattutto nei ristoranti. Questa la sconfortante conclusione cui giunge una rilevazione sul campo effettuata dal gruppo ambientalista Oceana in ristoranti di ogni genere (da quelli stellati ai take away di sushi fino alle tavole calde) e negozi e supermercati di Chicago, New York, Washington e della Virginia, nei quali sono stati prelevati 82 campioni di salmone definito wild durante la stagione nella quale i salmoni selvatici non dovrebbero essere disponibili, e cioè l’inverno (2013-2014). Poco meno di metà dei salmoni analizzati tramite l’esame del DNA, e cioè il 43% dei campioni, era etichettato in modo scorretto e le inesattezze, nel 69% dei casi, riguardavano l’origine dei pesci: non il mare aperto, come dichiarato, ma un allevamento. Un altro tipo di infrazione comune è la quotazione del salmone, definito di alta qualità, quando non lo era affatto. La situazione è peggiore nei ristoranti rispetto ai punti vendita: il 67% dei salmoni non era ciò che si diceva che fosse; mentre in supermarket e negozi questo è successo “solo” nel 20% dei casi. salmone I grandi negozi sono meno inclini alle frodi rispetto ai ristoranti Naturalmente, le grandi catene sono meno inclini alle frodi rispetto ai piccoli negozi, dove il rischio di truffa è ben otto volte superiore rispetto a quanto accade nei grandi supermercati, obbligati a indicare in etichetta molti più dettagli, e soprattutto molto attenti a non compromettere l’immagine del marchio con “incidenti” di questo tipo. Secondo gli autori, un particolare può servire per difendersi: nei mesi invernali, tra settembre e aprile, i salmoni selvatici dovrebbero essere introvabili o, se presenti sul mercato, surgelati. Meglio diffidare, quindi, se viene proposto salmone oceanico fresco nei mesi freddi. Del resto, la stessa organizzazione nel 2012 aveva effettuato uno studio analogo nei mesi estivi, trovando contraffazioni solo nel 7% dei casi. gamberetti pasta radiazioni 453942787 Anche i gamberetti subiscono la stessa sorte del salmone Ma le truffe, purtroppo, non riguardano solo i salmoni. Sempre Oceana, in rilevazioni precedenti, aveva scoperto che anche il 30% dei gamberi viene venduto barando, per esempio facendo passare i gamberi di allevamento per gamberi selvatici, che l’87% del pesce etichettato come dentice è in realtà un pesce appartenente a specie varie, e che nel 38% dei prodotti tipici venduti come contenenti aragoste (crab cakes) del Maryland, i crostacei del Maryland sono presenti solo in etichetta. In Italia e in Europa le norme sulle etichettature del pesce sono più severe, e questo pone al riparo da una parte di frodi, ma non da quelle, sempre possibili, messe in atto dai ristoratori. Un buon criterio, resta quello della stagionalità, che deve sempre far diffidare di pesce fresco offerto in stagioni diverse da quelle naturali. © Riproduzione riservata sostieniProva2

IN VENDITA OLIO CANCEROGENO

Allerta del Ministero: in vendita in Italia olio di palma vergine con colorante cancerogeno proveniente dal Ghana Sara Rossi 12 novembre 2015 Richiami e ritiri Lascia un commento 55 Visto olio di palma Oil palm fruit and cooking oil E’ allerta per l’olio di palma vergine venduto in Italia importato dal Ghana. Potrebbe contenere colorante cancerogeno Il giorno dopo la nostra segnalazione inviata al Ministero della salute sulla vendita in Italia di olio di palma vergine contaminato da un colorante cancerogeno e genotossico ( Sudan IV), il centro di riferimento del sistema di allerta di Roma (RASFF) ha allertato le autorità sanitarie regionali invitandole a fare accertamenti per ritirare o richiamare i prodotti interessati. Secondo la nota si tratterebbe di olio di palma proveniente dal Ghana importato dall’Olanda. Il problema è serio visto che nel 2003-4 centinaia di prodotti italiani sono stati ritirati perché contaminati dal Sudan I un colorante del tutto simile. Questa storia comincia il 21 ottobre 2015 la Food and Drugs Authority del Ghana ha invitato i consumatori a non utilizzare l’olio di palma, dopo che le analisi condotte dall’Autorità per la sicurezza alimentare su cinquanta campioni venduti in dieci dei maggiori mercati della regione della capitale Accra hanno rilevato la presenza, nel 98% dei casi, del pericoloso colorante genotossico e potenzialmente cancerogeno Sudan IV, di solito usato per dare una certa tonalità rossastra a solventi, cere, oli e lucido per scarpe. Il problema non riguarda l’olio di palma utilizzato dalle aziende alimentari europee che prima di essere esportato viene decolorato, deacidificato e raffinato. La questione però coinvolge lo stesso l’Europa e l’Italia, perché confezioni di olio di palma rosso sono esportate e vendute via internet e nei negozi etnici. In Gran Bretagna nel mese di aprile è stato ritirato dal commercio un olio di palma senza etichetta del Ghana venduto da Kemtoy Miyan Cash & Carry. In luglio la stessa sorte ha interessato un altro lotto proveniente dal Ghana marchiato Zdomi, commercializzato da Fovitor International, per la presenza di Sudan IV. Un’inchiesta avviata dalle autorità del Ghana sul Fovitor Zdomi Palm Oil ha scoperto che il fornitore, Miva Lifeline Limited, non aveva chiesto l’autorizzazione per esportare nell’UE , dove è richiesta l’assenza del Sudan IV. olio di palma Su internet sono acquistabili diverse marche di prodotti con olio di palma Pochi giorni fa c’è stato un altro caso. Il 30 ottobre, il Sistema rapido di allerta europeo per alimenti e mangimi (Rasff) ha segnalato in Francia , la vendita di olio di palma del Ghana proveniente dall’Olanda, con il colorante Sudan IV. Il Fatto Alimentare ha segnalato al Ministero della salute, Direzione generale per l’igiene e la sicurezza degli alimenti e la nutrizione, la presenza di diverse marche di olio di palma proveniente dal Ghana, acquistabili da siti internet in lingua italiana, chiedendo in via precauzionale vengano la sospensione delle importazioni di olio di palma dal Ghana. L’invito a non utilizzarlo dovrebbe essere rivolto anche a industrie, ristoratori e consumatori sino a che non saranno disponibili i risultati delle analisi di questi prodotti, per verificare l’eventuale presenza del colorante Sudan IV.

VENETO ACQUA CONTAMINATA.....

Veneto, interferenti endocrini nell’acqua potabile hanno contaminato la catena alimentare. I risultati dei campionamenti in decine di comuni del vicentino, veronese e padovano Beniamino Bonardi 12 novembre 2015 Allerta 1 Commento 142 Visto pesca pesci I Pfas sono presenti in tutta la catena alimentare ma soprattutto nei pesci Una sessantina di comuni veneti situati in una vasta area tra Vicenza, Verona e Padova, sono vittime da anni di un inquinamento che interessa le acque potabili e di falda probabilmente causata da attività industriali. Il problema è talmente diffuso che è stato adottato un programma di analisi del sangue su uomini e animali, oltre a un campionamento di alimenti di produzione locale alla ricerca di sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) riconosciute come interferenti endocrini correlate a patologie riguardanti pelle, polmoni e reni. Le Pfas sono definite “microinquinanti emergenti” perché sono frutto di un’industria chimica recente e per questo motivo non vengono monitorate dalle indagini di laboratorio condotte di routine. Le analisi sono state effettuate dai servizi veterinari e di igiene delle aziende sanitarie locali e i risultati dovranno essere ora valutati dal Ministero della Salute e dall’Istituto Superiore di Sanità. La difficoltà di una valutazione effettiva del rischio alimentare e ambientale sta nel fatto che, allo stato attuale, non esistono disposizioni di legge, non solo a livello comunitario, ma anche nazionale o internazionale, che disciplinino la presenza di Pfas negli alimenti. Sono stati individuati valori soglia solo per le acque potabili che però differiscono da paese a paese. acqua rubinetto pubblico 87735043 L’acqua inquinata ha veicolato ovunque i Pfas Il consigliere regionale veneto del Pd Andrea Zanoni ha ottenuto dalla Regione i risultati di 210 campionamenti alimenti, dove i Pfas, che dovrebbero essere assenti, risultano presenti in quasi tutta la catena alimentare, segno che probabilmente l’acqua inquinata le ha veicolate ovunque. Le analisi, focalizzate in particolare su Pfoa (acido perfluoroottanoico), Pfos (perfluorottano sulfonato) e Pfba (Acido PerfluoroButanoico), sono state effettuate su: foraggi, pesci di diverse specie (carpa, trota, cavedano, pesce gatto, scardola, carpa carassio), volatili (pollo, tacchino, fagiano, faraona, anatra), mammiferi (bovini, ovini e vaprini); verdure (insalata, bieta, carote, patate, pan di zucchero, asparagi, ravanelli, radicchio) e uova di gallina. Nella risposta delle autorità sanitarie indirizzata a Zanoni si legge: “Da una prima valutazione i valori riscontrati per Pfos e Pfoa si presentano più elevati rispetto ad alcuni dati presenti in bibliografia, peraltro ascrivibili a scenari diversi e non associati a specifiche criticità ambientali”. Dalle tabelle allegate emerge che le analisi con valori superiori al livello di attenzione (relative a una contaminazione da sostanze perfluoroalchiliche con concentrazioni superiori a 1 microgrammo per chilo), si riferiscono in particolare ai Pfos presenti su 33 campioni, mentre gli sforamenti per i Pfoa riguardano 4 campioni e 3 per Pfba. I campioni positivi al Pfba, per un valore variabile da 1 a 57,4 microgrammi/kg (ug/kg), riguardano: 11 campioni di uova, 10 campioni di pesce, 9 campioni di bovini , 2 campioni di insalata, 1 campione di bieta, foraggio, pollo, fagiano, capra. Sorprendono in particolare i 57,4 ug/kg di residui trovati in una scarola (pesce) prelevata a Creazzo nel fiume Cassacina, i 18,4 ug/kg di una carpa prelevata a Creazzo, i 33,9 ug/kg di un pesce prelevato nel fiume Fratta a Cologna Veneta e i 21,2 ug/kg su un uovo di un allevamento domestico munito di pozzo di Cologna Veneta. interferenti endocrini La causa della contaminazione potrebbe essere una locale industria In un’interrogazione rivolta alla Giunta regionale del Veneto, Zanoni ricorda che “l’Agenzia regionale per la prevenzione e protezione ambientale (Arpa) del Veneto avrebbe a suo tempo individuato la fonte della contaminazione negli scarichi di una locale industria. I composti del fluoro vengono infatti utilizzati per impermeabilizzare tessuti, carta, contenitori per alimenti”, e chiede “quali azioni urgenti intende avviare la Regione del Veneto affinché siano accertate e rimosse le cause della suddetta fonte inquinante nonché individuate le relative responsabilità al fine di tutelare la salute della popolazione coinvolta e di risarcire i costi sostenuti dalle amministrazioni locali per l’attuazione degli interventi di emergenza ambientale già effettuati”. Il Ministero dell’Ambiente avverte che Pfos e Pfoa sono due composti chimici persistenti, possono accumularsi e occorrono anni prima che siano eliminati. © Riproduzione riservata sostieniProva2Le donazioni si possono fare: * Con Carta di credito (attraverso PayPal): clicca qui * Con bonifico bancario: IBAN: IT 77 Q 02008 01622 000110003264 indicando come causale: sostieni Ilfattoalimentare

I NAS.....

I N.A.S., Nuclei Antisofisticazioni e Sanità dell'Arma, sono stati istituiti il 15 ottobre 1962, nel momento in cui si è presa coscienza del fenomeno delle sofisticazioni alimentari, che tanto allarme cominciava a destare nell'opinione pubblica. Inizialmente la "forza" era costituita da un Ufficiale Superiore, distaccato presso il Gabinetto dell'allora Ministero della Sanità, e da 40 sottufficiali dislocati nelle città di Milano, Padova, Bologna, Roma, Napoli e Palermo. Nel tempo, anche in relazione ai consistenti risultati conseguiti, la presenza sul territorio degli uomini dei Nuclei Antisofisticazione e Sanità (N.A.S.) è notevolmente aumentata, fino al momento in cui il reparto, acquisita l'attuale denominazione di Comando Carabinieri per la Tutela della Salute, ha assunto una nuova fisionomia ordinativa. Oggi esso dispone di 1096 unità specializzate, ripartite su: una struttura centrale composta da Comandante, Ufficio Comando e Reparto Analisi; 3 Gruppi Carabinieri per la Tutela della Salute (Milano, Roma e Napoli); 38 Nuclei Carabinieri Antisofisticazione e Sanità, presenti sull’intero territorio nazionale, con competenza regionale o interprovinciale. L'attività dei N.A.S. ha sempre suscitato viva ammirazione tra i vertici dell'Arma, del Ministero della Salute, tra gli stessi operatori commerciali e tra la popolazione, riscuotendo ovunque riconoscimenti ed attestati di benemerenza. Gli alimenti più adulterati in Europa? L’olio di oliva è al primo posto, seguito dal pesce e alimenti bio. La Commissione invita a raddoppiare le sanzioni Roberto La Pira 23 ottobre 2013 Controlli e Frodi Commenti 806 Visto olio oliva bottiglia 178641561 l’Unione europea non ha una definizione riconosciuta di frode alimentare La Commissione europea per l’ambiente, la sanità pubblica e la sicurezza alimentare ha presentato una relazione sulle frodi alimentari, focalizzando l’attenzione sulle etichette ingannevoli. Il documento ricorda alcuni episodi recenti come l’impiego di antigelo negli alimenti, la vendita di uova finto-biologiche e il caso della carne di cavallo. Anche se l’argomento è molto sentito dai consumatori è pur vero che l’Unione europea non ha una definizione riconosciuta di frode alimentare (1). L’unico riferimento si trova nel regolamento 178/2002, quando si dice che l’etichettatura, la pubblicità, la presentazione e il confezionamento non devono fuorviare i consumatori, anche se l’applicazione di questa disposizione varia molto tra i vari Stati. Il dossier contiene la lista dei prodotti più a rischio di frode (vedi tabella), mettendo in cima alla classifica l’olio d’oliva seguito da pesci, prodotti biologici, latte, cereali, miele, caffè e tè. In ultima posizione troviamo spezie come zafferano e peproncino, vino e succhi di frutta. La pole position dell’olio è molto grave, visto che si tratta di un prodotto commercializzato prevalentemente in Spagna, Italia e Grecia. Il motivo secondo noi è da ricercare nella grande quantità di olio deodorato, trasformato e venduto come extra vergine. cibo grida paura allerta frode 168724519 Elenco dei prodotti che sono più a rischio di frodi: olio d’oliva, pesce, alimenti biologici, latte, cereali, miele, caffè e te spezie, vino, succhi di frutta Elenco dei prodotti che sono più a rischio di frodi 1 Olio d’oliva 2 Pesce 3 Alimenti biologici 4 Latte 5 Cereali 6 Miele 7 Caffè e tè 8 Spezie (come zafferano e peperoncino in polvere) 9 Vino 10 Alcuni succhi di frutta Secondo il dossier il rischio di frode cresce quando le probabilità di essere scoperti sono poche e il guadagno economico è rilevante. L’altro elemento da considerare è l’importo ridotto delle sanzioni che si rivelano un deterrente inefficace. La Commissione suggerisce agli Stati membri di definire meglio cosa si intende per frode alimentare e auspica il rafforzamento degli organi di controllo, una maggiore cooperazione all’interno dell’Europol per le indagini transfrontaliere e invita ad incoraggiare le iniziative private destinate a programmi antifrode. Anche le segnalazioni degli operatori del settore alimentare possono contribuire a migliorare la situazione. 164793448 Il rischio di frode cresce quando le probabilità di essere scoperti sono poche e il guadagno economico è rilevante L’auspicio finale è un invito a raddoppiare le sanzioni e ritirare le autorizzazioni ad operare ai soggetti recidivi. (1) Secondo Spink e Moyer una definizione di frode alimentare potrebbe essere: Frode alimentare è un termine generico usato per comprendere la sostituzione deliberata e intenzionale, inoltre, manomissioni o false dichiarazioni di cibo, il cibo ingredienti, o imballaggi per alimenti, o dichiarazioni false o fuorvianti fatte su un prodotto per guadagno economico. Attingendo a questa definizione, le principali caratteristiche delle frodi alimentari sono: 1) non conformità con la legislazione alimentare e/o indurre in errore il consumatore, 2), l’intenzionalità e 3) lucrare. Roberto La Pira ©Riproduzione riservata Foto: Photos.com Roberto La Pira Roberto La Pira giornalista, tecnologo alimentare Veneto, interferenti endocrini nell’acqua potabile hanno contaminato la catena alimentare. I risultati dei campionamenti in decine di comuni del vicentino, veronese e padovano Beniamino Bonardi 12 novembre 2015 Allerta 1 Commento 142 Visto pesca pesci I Pfas sono presenti in tutta la catena alimentare ma soprattutto nei pesci Una sessantina di comuni veneti situati in una vasta area tra Vicenza, Verona e Padova, sono vittime da anni di un inquinamento che interessa le acque potabili e di falda probabilmente causata da attività industriali. Il problema è talmente diffuso che è stato adottato un programma di analisi del sangue su uomini e animali, oltre a un campionamento di alimenti di produzione locale alla ricerca di sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) riconosciute come interferenti endocrini correlate a patologie riguardanti pelle, polmoni e reni. Le Pfas sono definite “microinquinanti emergenti” perché sono frutto di un’industria chimica recente e per questo motivo non vengono monitorate dalle indagini di laboratorio condotte di routine. Le analisi sono state effettuate dai servizi veterinari e di igiene delle aziende sanitarie locali e i risultati dovranno essere ora valutati dal Ministero della Salute e dall’Istituto Superiore di Sanità. La difficoltà di una valutazione effettiva del rischio alimentare e ambientale sta nel fatto che, allo stato attuale, non esistono disposizioni di legge, non solo a livello comunitario, ma anche nazionale o internazionale, che disciplinino la presenza di Pfas negli alimenti. Sono stati individuati valori soglia solo per le acque potabili che però differiscono da paese a paese. acqua rubinetto pubblico 87735043 L’acqua inquinata ha veicolato ovunque i Pfas Il consigliere regionale veneto del Pd Andrea Zanoni ha ottenuto dalla Regione i risultati di 210 campionamenti alimenti, dove i Pfas, che dovrebbero essere assenti, risultano presenti in quasi tutta la catena alimentare, segno che probabilmente l’acqua inquinata le ha veicolate ovunque. Le analisi, focalizzate in particolare su Pfoa (acido perfluoroottanoico), Pfos (perfluorottano sulfonato) e Pfba (Acido PerfluoroButanoico), sono state effettuate su: foraggi, pesci di diverse specie (carpa, trota, cavedano, pesce gatto, scardola, carpa carassio), volatili (pollo, tacchino, fagiano, faraona, anatra), mammiferi (bovini, ovini e vaprini); verdure (insalata, bieta, carote, patate, pan di zucchero, asparagi, ravanelli, radicchio) e uova di gallina. Nella risposta delle autorità sanitarie indirizzata a Zanoni si legge: “Da una prima valutazione i valori riscontrati per Pfos e Pfoa si presentano più elevati rispetto ad alcuni dati presenti in bibliografia, peraltro ascrivibili a scenari diversi e non associati a specifiche criticità ambientali”. Dalle tabelle allegate emerge che le analisi con valori superiori al livello di attenzione (relative a una contaminazione da sostanze perfluoroalchiliche con concentrazioni superiori a 1 microgrammo per chilo), si riferiscono in particolare ai Pfos presenti su 33 campioni, mentre gli sforamenti per i Pfoa riguardano 4 campioni e 3 per Pfba. I campioni positivi al Pfba, per un valore variabile da 1 a 57,4 microgrammi/kg (ug/kg), riguardano: 11 campioni di uova, 10 campioni di pesce, 9 campioni di bovini , 2 campioni di insalata, 1 campione di bieta, foraggio, pollo, fagiano, capra. Sorprendono in particolare i 57,4 ug/kg di residui trovati in una scarola (pesce) prelevata a Creazzo nel fiume Cassacina, i 18,4 ug/kg di una carpa prelevata a Creazzo, i 33,9 ug/kg di un pesce prelevato nel fiume Fratta a Cologna Veneta e i 21,2 ug/kg su un uovo di un allevamento domestico munito di pozzo di Cologna Veneta. interferenti endocrini La causa della contaminazione potrebbe essere una locale industria In un’interrogazione rivolta alla Giunta regionale del Veneto, Zanoni ricorda che “l’Agenzia regionale per la prevenzione e protezione ambientale (Arpa) del Veneto avrebbe a suo tempo individuato la fonte della contaminazione negli scarichi di una locale industria. I composti del fluoro vengono infatti utilizzati per impermeabilizzare tessuti, carta, contenitori per alimenti”, e chiede “quali azioni urgenti intende avviare la Regione del Veneto affinché siano accertate e rimosse le cause della suddetta fonte inquinante nonché individuate le relative responsabilità al fine di tutelare la salute della popolazione coinvolta e di risarcire i costi sostenuti dalle amministrazioni locali per l’attuazione degli interventi di emergenza ambientale già effettuati”. Il Ministero dell’Ambiente avverte che Pfos e Pfoa sono due composti chimici persistenti, possono accumularsi e occorrono anni prima che siano eliminati. © Riproduzione riservata sostieniProva2Le donazioni si possono fare: * Con Carta di credito (attraverso PayPal): clicca qui * Con bonifico bancario: IBAN: IT 77 Q 02008 01622 000110003264 indicando come causale: sostieni Ilfattoalimentare Beniamino Bonardi

Galbani non vuol dire Fiducia

La storia della Galbani,non vuol dire Fiducia Per anni ci hanno imbottito la testa con uno slogan scintillante Galbani vuol dire fiducia ... Ma perchè una azienda leader nel settore della produzione di formaggi vende??? Ecco la storia: La Galbani ha origine nel 1882 dal caseificio di Davide ed Egidio Galbani, situato a Ballabio, all’imbocco della Valsassina e successivamente trasferito a Maggianico; in un’epoca in cui in Italia la produzione casearia era per lo più di tipo artigianale ed i prodotti erano commercializzati solo localmente, i Galbani si ispirarono ai prodotti francesi, che già allora erano esportati in Italia, e producevano una robiola simile al brie. Nel 1896 Egidio Galbani si trasferì presso una cascina di Melzo, per lavorarvi come lattaio; la zona era propizia per l’industria casearia grazie all’abbondanza di acque a disposizione per coltivare i foraggi. Dopo pochi anni realizzò un nuovo laboratorio, e nel 1900 fu costruito un vero e proprio stabilimento, là dove l’azienda avrebbe avuto il principale polo produttivo per i decenni a venire. Il primo grande successo risale al 1906 con il lancio del Bel Paese, un formaggio stagionato che prese il nome dall’omonimo libro di Antonio Stoppani, e che è diventato famoso in tutto il mondo. Agli anni Venti risale l’acquisizione degli stabilimenti di Certosa di Pavia, che sorge a Guinzano, nel comune di Giussago proprio tra la Stazione di Certosa di Pavia ed il monumento cistercense della Certosa di Pavia (da cui presero il nome le crescenze Certosa e Certosino) e di quello di Corteolona, dove tuttora vengono prodotte. Il successo della Galbani è dovuto anche all’efficiente flotta di camioncini ed alla rete di depositi in grado di rifornire i numerosi punti vendita in cui è ancora frammentato il mercato dei latticini. L’azienda distribuisce i propri prodotti anche nei maggiori paesi europei, ed in Giappone e negli Stati Uniti. Nel 2008 l'azienda fu coinvolta in uno scandalo alimentare che coinvolgeva il commercio di prodotti frutto del riciclo di alimenti in avanzato stato di deperimento[1]. I passaggi di proprietà Lo stabilimento Galbani di Corteolona (PV). Già negli anni trenta la Galbani apparteneva ad un ramo della famiglia Invernizzi di Melzo, imparentato con i proprietari dell’azienda omonima. Nel 1974 gli Invernizzi cedettero l’azienda a quattro finanziarie con sede nel Lussemburgo e nel Liechtenstein, con proprietari ignoti[2]; negli anni settanta ed ottanta l’identità dei proprietari della Galbani rimase sconosciuta. Il volto “pubblico” dell’azienda era l’amministratore delegato Luigi Campominosi, che assunse anche incarichi nell’associazione di categoria degli industriali caseari; nonostante questo, la riservatezza dell’azienda sull’assetto proprietario rimase assoluta. Nel 1989 fu acquisita da IFIL e BSN-Danone, che nel corso degli anni rilevò progressivamente l’intera azienda. Nel 2002 Danone vendette al fondo di private equity Bc Partners, che operò una profonda riorganizzazione, esternalizzando la logistica e suddividendo l’azienda in tre entità: Egidio Galbani, che comprende le attività produttivo-industriali; BiG, che si occupa della vendita e della distribuzione; BiG Logistica, che gestisce il grande magazzino centrale di Ospedaletto Lodigiano. Nel 2006 Bc Partners monetizzò il proprio investimento cedendo Galbani al gruppo lattiero-caseario francese Lactalis[3], che già aveva rilevato la proprietà di tre storiche aziende casearie italiane come Locatelli, Invernizzi e Cademartori. ed ecco un' altro racconto..... Obbligati per anni a vendere merce con la data di scadenza contraffatta" Prodotti piazzati sul mercato dopo provvidenziali lifting nel deposito dell'azienda Perugia, denuncia dei dipendenti Galbani "Così ci fanno vendere i formaggi avariati" Perugia, denuncia dei dipendenti Galbani "Così ci fanno vendere i formaggi avariati" dal nostro inviato PAOLO BERIZZI NON BASTAVANO le indagini - che continuano ad ampio raggio - delle procure di Cremona e Piacenza. Adesso a scrivere una nuova pagina nello scandalo dei formaggi "scaduti, bonificati e reimmessi sulle tavole degli ignari consumatori" (dalle carte dell'inchiesta), ci pensano gli stessi dipendenti delle aziende. Accade a Perugia, dove alcuni lavoratori - venditori e addetti allo stoccaggio - hanno presentato un esposto in procura contro la Galbani, denunciando di essere "stati obbligati, per anni, dai capi del personale, a vendere merce con la data di scadenza contraffatta". A disposizione dei magistrati ci sono documenti, fotografie e registrazioni audio piuttosto esplicite. Nella denuncia si fa riferimento a grossi quantitativi di prodotti piazzati sul mercato dopo provvidenziali lifting nel deposito perugino dell'azienda. Da lì - stando al dossier ora al vaglio degli investigatori - dal 2000 in poi sarebbero partite tonnellate di formaggi e salumi "tenuti in vita". Il marchio Galbani è già coinvolto nell'inchiesta condotta dalla Guardia di Finanza di Cremona e Piacenza. Compare tra i principali fornitori della Tradel, una delle aziende "riciclone" che tra Lombardia e Emilia Romagna acquistavano formaggio scaduto o avariato e lo "bonificavano" mischiandolo a prodotto fresco. Precise responsabilità, in quel caso, sono emerse a carico di alcuni impiegati degli stabilimenti Galbani di Certosa di Giussago e Corteolona (Pavia). Decine di tonnellate di merce qualificata come "residui di produzione lattiero casearia per trasformazione a uso alimentare" erano in realtà costituite da croste di gorgonzola ad uso zootecnico e cagliate scadute. Egidio Galbani Spa produce i formaggi Bel Paese, Certosa, Santa Lucia e Galbanino. Fa parte della francese Lactalis, il gruppo caseario numero uno in Europa, già proprietario di altri marchi italiani tra cui Invernizzi e Locatelli. "Big logistica" è la società che distribuisce e vende tutti i prodotti Galbani in Italia. Nel deposito di Perugia operano 26 camioncini, ognuno dei quali "piazza" in media 60 quintali di merce al mese, complessivamente 15 tonnellate. È qui, nella base umbra, che deflagra il caso "etichette". Tutto inizia nel 2005. Con una denuncia "interna". Alcuni dipendenti si rivolgono al direttore del personale (tuttora in carica). Non ne possono più di quello che - in una serie di comunicazioni riservate - viene definito un "sistema vergognoso". Informano il dirigente su ciò che sistematicamente avviene nel deposito. Una serie di "incastri" sulle confezioni di formaggi e salumi: scadenze prorogate, cancellate con solventi in modo tale che il prodotto possa essere venduto senza problemi. Fatture e bolle di accompagnamento modificate ad arte. Qualche esempio? La mortadella "Golosissima" scade il 16-01-2003 ma la fattura di vendita riporta la data 24-01-2003. Le mozzarelline Santa Lucia scadono il 5-5-2005 e però vengono vendute l'11-05-2005. La stessa sorte tocca alle ricottine (confezioni da 250 gr), al provolone piccante, al pecorino sardo Castenuri, alla Certosa, alla caciotta e al salame Milano (confezioni da 3 kg). E dunque: tutto questo i lavoratori riferiscono - prove alla mano - al direttore del personale. È il 14 novembre del 2005. L'incontro avviene in un hotel di Perugia. "C'è da vergognarsi", "i capi sanno tutto", "se vengono fuori queste cose, l'azienda chiude domani". Di fronte all'outing degli addetti, il dirigente promette interventi immediati, ma allo stesso tempo li dissuade dall'intraprendere eventuali azioni di denuncia. "Certo, bisogna intervenire... - dice - metti che qualcuno si sente male dopo aver mangiato sta roba, ma non sia mai che stè notizie escano fuori di qui". Passa un mese e Galbani corre ai ripari. Un ispettore amministrativo viene inviato nel deposito. Controlla la merce nei furgoni, accerta che è scaduta. Partono i controlli a campione in un paio di negozi. I formaggi e i salumi taroccati, quelli dove viene acclarato il "trucco" sulle confezioni, vengono acquistati dalla stessa azienda. Tolti dagli scaffali. Ma il sistema non cessa. Di più. I vertici aziendali vengono informati anche del problema delle "carenze igieniche" durante le operazioni di stoccaggio della merce. Merce stivata fuori dalla celle frigorifere. A volte addirittura in "celle private" ovvero garage. Trasporto con mezzi non idonei. Finisce tutto nel dossier presentato in Procura. Viene in mente il rassicurante motto dell'azienda ("Galbani vuol dire fiducia"). Ma questa è un'altra storia. (14 ottobre 2008) Tutti gli articoli di cronaca F.Tamburini, Azionista estero, identità ignota, Il Sole 24 ore, 3-10-1987 C.Bastasin, Ifil con Bsn acquista Galbani, Il Sole 24 ore, 20-7-1989 M.D’Ascenzo, Galbani va alla francese Lactalis, 15-1-2006 S.Villa, Appunti per una Storia di Melzo-La Rivoluzione Industriale, dal sito http://www.bibliomilanoest.it/Melzo

martedì 10 novembre 2015

L' economia dei veleni: possibile che non riusciamo a trovare un modo per non inquinare?

Trivellazioni Abruzzo, non accolta richiesta sospensione di Ombrina Mare. Regione: “Ricorreremo al Tar”

Trivellazioni Abruzzo, non accolta richiesta sospensione di Ombrina Mare. Regione: “Ricorreremo al Tar”
Ambiente & Veleni



La conferenza dei servizi presso il ministero dello Sviluppo non ha concluso l'istruttoria sulla piattaforma, nonostante la legge regionale che vieta le attività petrolifere nel raggio di dodici miglia dalla costa. Wwf: "Ignorata la volontà di una intera regione". Forza Italia e M5s contro il governatore D'Alfonso: "Non ci ha difesi dagli 'ufo'"

Il ministero dello Sviluppo economico ha dato di fatto il via libera al progetto di Ombrina Mare 2. Da oggi il materializzarsi della piattaforma petrolifera di ricerca ed estrazione del greggio a poche miglia dalla costa teatina appare più vicino. Il Mise infatti non ha accolto la richiesta di sospensione dell’iter, nonostante la recentissima istituzione del Parco Marino (dei trabocchi), ultimo disperato tentativo fatto dalla Regione Abruzzo per scongiurare il progetto. E nonostante una legge regionale che vieta le attività petrolifere nel raggio di dodici miglia dalla costa. Il ministero in serata ha chiarito che durante la conferenza dei servizi, a cui hanno partecipato rappresentanti del governo, della Regione, della società proponente e dei 35 comuni confinanti con l’area marina dove dovrebbe aver luogo la ricerca degli idrocarburi, sono stati solo “acquisiti elementi” e l’istruttoria non è ancora conclusa. Ma adesso le speranze di chi si oppone a Ombrina sono ridotte ai minimi termini. Resta tecnicamente aperto solo lo spiraglio di un ricorso al Tar, preannunciato da diversi sindaci della costa.
Secondo il vicepresidente della Regione Abruzzo Giovanni Lolli “il progetto è illegittimo perché contrasta con due leggi vigenti, leggi regionali che però non sono state impugnate e quindi restano operative. Faremo ricorsi in sede sia civile che penale. Siamo di fronte a un’arroganza inaccettabile, che porta a uno scontro istituzionale. Fino a quando siamo vivi la battaglia continua”. Il Wwf parla invece, per bocca del suo vicepresidente nazionale Dante Caserta, di “un totale scollamento tra il governo nazionale e il territorio. Il primo ha colpevolmente ignorato la volontà di una intera regione, ha considerato carta straccia gli atti ufficiali della Regione Abruzzo, non ha tenuto conto della volontà di enti locali e associazioni imprenditoriali”. Per Giorgio Zampetti, responsabile scientifico di Legambiente, “l’ostinazione che sta dimostrando il ministero è la stessa che sta avendo il Governo Renzi in materia di trivellazioni petrolifere. Pensare che il futuro energetico del Paese possa essere legato al petrolio e alle trivelle vuol dire riproporre un modello vecchio, insensato e inefficace”.
“È un giorno nero per l’Abruzzo e l’Adriatico”, è il commento del Coordinamento No Ombrina. “Ovviamente non ci arrendiamo, perché pensiamo sia un vero e proprio sopruso. Con l’impegno di tutti i cittadini vedremo di ribaltare il risultato presentando esposti e ricorsi in tutte le sedi, dalla giustizia penale a quella amministrativa passando per la Commissione Europea. Resta il problema di un governo tutto votato alla causa dei petrolieri, con un’azione che stride sempre più con gli allarmi che gli scienziati da tutto il mondo stanno lanciando sull’uso dei combustibili fossili”. “Pane e olio, senza petrolio. C’è l’Abruzzo da rispettare, via i pirati dal nostro mare”, inneggiavano invece i manifestanti davanti alla sede del ministero.
Forza Italia e i 5 Stelle contestano la maggioranza del consiglio regionale: “Abbiamo assistito ancora una volta all’approssimazione di Luciano D’Alfonso che non ha voluto partecipare all’importante appuntamento, più di un indizio, mandando al suo posto il vicepresidente Lolli”, affermano i consiglieri regionali di FI Lorenzo Sospiri e Mauro Febbo. “L’unica legge che avrebbe fermato questo scempio giace in qualche cassetto”, rincara Sara Marcozzi, consigliere regionale pentastellata. “Si tratta della legge di iniziativa alle Camere per modificare e in parte abrogare l’articolo 35 del decreto sviluppo, il documento con cui di fatto si autorizzano le trivellazioni nel mare Adriatico. E sapevamo bene che la Regione avrebbe combattuto con armi spuntate e leggi dall’odore di incostituzionalità. Abbiamo avvisato più volte i cittadini di non cadere nelle dinamiche propagandistiche del governo regionale che non è stato capace di difenderci “dagli ufo””. Come D’Alfonso, in campagna elettorale, aveva chiamato le piattaforme petrolifere.
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Getta però acqua sul fuoco l’avvocato Claudio Di Tonno, legale di alcuni Comuni della costa teatina:”La Conferenza dei servizi si è conclusa con un nulla di fatto. Il ministero non ha consentito di auto-organizzare i lavori della Conferenza e il dirigente l’ha chiusa. Il Ministero deciderà in seguito, in questa fase non è chiamato ad esprimere alcunché”.

FONTE- http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/11/09/trivellazioni-abruzzo-non-accolta-richiesta-sospensione-di-ombrina-mare-regione-ricorreremo-al-tar/2204821/

giovedì 5 novembre 2015

La Germania dice no ai VELENI nello stomaco dei cittadini tedeschi, e il paese di EXPOVELENI sta zitto

Il Ttip è l’Accordo transatlantico sul commercio e gli investimenti e prevede il libero scambio con gli Stati Uniti di beni e servizi. Ne abbiamo già scritto offrendo i pochi “pro” e i troppi “contro” a questa operazione che nei fatti è ancora in itinere ma che è nelle fasi conclusive.

Europa e Stati Uniti si sono seduti al tavolo delle trattative per discuterne nel 2013 e la conclusione dei negoziati è prevista per il prossimo anno. Il danno più grande che si andrebbe a concretizzare nell’immediato sarebbe quello di legarsi indissolubilmente al Dollaro Usa che (specie in questo periodo storico) sarebbe la sventura peggiore che potrebbe capitare a chiunque.

Ovviamente parlarne è utile, e lo sarà sempre di più per sensibilizzare gli individui circa le ripercussioni (soprattutto quelle negative) derivanti da questa sciagurata iniziativa di matrice lobbistica. Peccato che ancora nessuno abbia sufficientemente e pubblicamente (fino ad oggi) espresso dissenso al riguardo.

Solo i tedeschi, evidentemente più partecipi alla vita politica del paese rispetto agli altri cittadini europei (italiani inclusi), sabato scorso hanno invaso le strade di Berlino per manifestare il loro dissenso verso il Ttip e anche il Ceta (che è l’accordo economico commerciale globale fra Europa e Canada).

La manifestazione è stata promossa per porre fine ai negoziati riunendo sotto la medesima bandiera oltre 30 gruppi della società civile, tra cui attivisti ambientali, sociali e culturali e dei sindacati, organizzazioni religiose.

Christoph Bautz del movimento cittadino “Compact” afferma che il patto consegnerà troppo potere alle grandi multinazionali a scapito dei consumatori e dei lavoratori. In realtà il timore maggiore deriverebbe da una disposizione che permetterebbe alle aziende di citare in giudizio i governi in tribunali speciali. Tale disposizione porterebbe ad una erosione della tutela del lavoro e dell’ambiente. 

Ovviamente non la pensano alla stessa maniera i sostenitori del Ttip che vedono nella conclusione positiva dell’accordo il rilancio dell’economia di tutta la Ue eliminando dazi e creando standard comuni.

Non possiamo credere che la Cancelliera non sia rimasta sorpresa della reazione in casa, dovrà lavorare molto per convincere il suo stesso popolo a cambiare idea. Poi, sarebbe interessante capire se creare un mercato di 800 milioni di persone è necessario a difendersi dal mercato cinese per noi europei o per gli americani.

Comunque l’argomento pare non interessare gli altri paesi Europei, Italia inclusa, curioso!  
12 ottobre 2015, Luca Lippi