Fermiamo il Ttip!
Il Parlamento europeo avrebbe dovuto votare in materia di TTIP il 10 giugno, ma il dibattito e il voto sono stati rimandati dopo la presentazione di oltre 200 emendamenti all’accordo. Il Parlamento europeo, pertanto, voterà la risoluzione sul TTIP il prossimo mercoledì 8 luglio.
L’Alleanza Stop-TTIP esprime le opinioni della società civile: oggi, 2,3 milioni di cittadini europei richiedono che siano bloccati i negoziati sul TTIP. Secondo Slow Food, l’unica soluzione è un rifiuto completo del TTIP.
Slow Food chiede al Parlamento europeo di rifiutare il TTIP e di non scendere a compromessi su alcun emendamento. Come ha affermato Carlo Petrini, Presidente di Slow Food:
Se il TTIP viene approvato, il nostro sistema alimentare quotidiano, già soggetto a un cambiamento drastico e insidioso, diventerà sempre più slegato dalla dimensione umana. Gli accordi di libero scambio, a partire dal NAFTA, non hanno portato ad alcun miglioramento della qualità della vita dei piccoli produttori e di chi è economicamente svantaggiato, ma hanno solo moltiplicato i guadagni degli speculatori più ricchi.
Ursula Hudson, Presidente di Slow Food Germania, spiega:
Il TTIP, così come è attualmente strutturato, non è assolutamente accettabile. Abbiamo bisogno di altre cose, non del TTIP: vogliamo democrazia, trasparenza e protezione legale per gli individui, e non più diritti per le multinazionali che vogliano citare una controparte in giudizio. Vogliamo proteggere e sviluppare ulteriormente le politiche ambientali europee, gli standard che abbiamo già raggiunto, invece di subordinarli alla logica del libero scambio.
Richard McCarthy, Direttore esecutivo di Slow Food USA, dichiara:
Siamo profondamente preoccupati da questa corsa verso la deregolamentazione, che riduce il controllo e la trasparenza del nostro sistema alimentare. Genererebbe una grande incongruenza, oggi che le comunità negli Stati Uniti e in tutta Europa cercano di riacquisire un maggiore controllo sulle informazioni indicate nelle etichette dei prodotti alimentari, sull’origine degli alimenti che consumiamo e sul modo in cui sono prodotti. Il TTIP minerebbe questi sforzi.
La risoluzione sul TTIP prevede anche l’inclusione della clausola relativa all’Investor-state dispute settlement (ISDS). Il Parlamento europeo deve assumere una chiara posizione contro l’ISDS. La clausola, infatti, consente alle aziende di citare in giudizio i governi presso tribunali privati in caso di azioni statali che, a loro giudizio, interferiscono con i loro investimenti e riducono i profitti previsti. Questa pratica è un pericolo per lo stato di diritto e i principi democratici.
fonte sito www.slowfood.it
Pecore, addio!
Una notizia apparsa su Internazionale letta
di corsa con scarsa attenzione, parlava di una riduzione del patrimonio
ovino della Nuova Zelanda da 70 milioni di capi (11 per abitante) agli
attuali 30 milioni (6 per abitante). La Nuova Zelanda domina il mercato
mondiale degli agnelli ed è tra i maggiori esportatori di lana e di
latticini: e allora cosa mai è successo in quel paese per spiegare un
tale crollo del gregge ovino nazionale?
Allora quella piccola notizia a margine
di un reportage più ampio suscita qualche dubbio: se colleghiamo questo
crollo a segnali che arrivano dall’Europa e dall’Italia in particolare,
quegli interrogativi si trasformano in un vago senso di inquietudine, e più si approfondisce l’argomento, più l’inquietudine diventa preoccupazione.
L’Italia conta 7.300.000 capi, molti ma
non moltissimi rispetto ai 35.000.000 dell’Inghilterra o ai quasi 12
della Spagna. Il 50 per cento di questi esemplari si trova in Sardegna. E
si scopre che anche da noi la riduzione è netta: in
Sardegna, ad esempio, rispetto a dieci anni or sono si sono persi un
milione di capi. E in tutta Europa si registra un arretramento. Una
delle cause è rappresentata certamente dalla cosiddetta “lingua blu”,
una virosi che colpisce in particolare i ruminanti di piccola taglia e
che ha comportato molti abbattimenti. Ma non può essere solo
la malattia a ridurre in modo così drastico il gregge nazionale. E non possono essere neppure i tanto temuti e colpevolizzati lupi, del tutto assenti in Sardegna.
E allora quell’inquietudine vaga ed
emotiva deve tradursi in un ragionamento. E il ragionamento ci porta ad
alcune possibili cause del fenomeno, che alla fin fine riconducono alla
impossibilità di un reddito adeguato per gli allevatori e i pastori. La lana, se non è di razze particolarmente pregiate, non la vuole più nessuno,
è considerata un rifiuto speciale, e dunque un costo per lo
smaltimento. Il latte ovino, per quelli che ancora mungono pecore (e
sono sempre meno) è ceduto alla stalla a un prezzo medio inferiore all’euro:
pensate un attimo al tempo che occorre per mungere 100, 200 pecore
raccogliendo meno di un litro di latte a capo e alla fatica, e vi
renderete conto che un euro, anzi meno di un euro al litro, è
vergognosamente basso. E comunque va detto – ed è la terza ragione delle
difficoltà del comparto – che i consumi di pecorini stagionati sono in costante calo.
Le giovani generazioni non amano quei sentori forti, un poco piccanti e
l’odore animale che sempre si sprigiona da un cacio pecorino
stagionato. E l’unico modo per garantire un buon prezzo del latte alla
stalla sarebbe appunto quello di produrre formaggi affinati e non
formaggi freschi che vanno a posizionarsi su di un mercato dominato
dall’industria casearia. Certo, qualche nicchia resiste, i nostri
Presidi reggono ancora, ma le grandi produzioni delle cooperative sarde
ad esempio, sono in difficoltà grave. I giovani mangiano formaggi dolci,
tendenzialmente insapori, morbidi e grassi.
Pecorini addio, dunque? E di conseguenza pecore addio?
Non siamo ancora a quel punto, ma è certo che dobbiamo cominciare a
riflettere seriamente tutti sul problema, istituzioni, produttori e
consumatori, e valutare opportune contromisure: altrimenti il rischio di
vedere piano piano estinguersi il pastoralismo e l’allevamento ovino è
reale e neppure così lontano nel tempo.
Piero Sardo
Presidente della Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus
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